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Urbi et Orbi

NEI GIARDINI DEL TERRORISMO

PAOLO CREMONESI - 10/01/2020

azaleaIl mio amico Angelo Picariello, quirinalista di Avvenire, ha scritto un libro importante.

Bello e importante: si intitola Un’azalea in via Fani (Edizioni San Paolo) e parla di terroristi e vittime da piazza Fontana sino alla sparatoria sul treno Firenze-Roma il 2 Marzo del 2003 che decapitò l’ultima colonna delle Brigate Rosse. Storie di riscatto e riconciliazione, di violenza e di perdono.

Nel libro vengono raccontate figure di brigatisti come Franco Bonisoli, Alberto Franceschini, Mario Moretti e Walter Di Cera; di poliziotti come Carlo Di Stefano; di persone che hanno conosciuto da vicino gli estremisti come Nicodemo Oliverio; di parenti delle vittime come Agnese Moro o Adriana Romiti; di protagonisti del dialogo tra vittime e carnefici come, padre Bertagna.

Come si fa a diventare terroristi? Un volantino di Comunione e liberazione, diffuso nel marzo 1980 subito dopo l’uccisione del professor Guido Galli all’Università Statale di Milano, sintetizza in modo efficace quanto emerge da molte dichiarazioni di ex brigatisti: “Terroristi non si nasce, si diventa, è frutto di una mentalità”. Non bastano, cioè, i condizionamenti sociali e gli avvenimenti storici, che pure vengono presi in considerazione da Picariello, quasi ci fosse un meccanismo automatico, un’inevitabilità di carattere hegeliano della violenza.

Confessa Franceschini: “All’epoca il fine giustificava i mezzi. C’era un’ideologia, chiamiamola marxista o stalinista, che ha costruito un’idea di totalitarismo in base alla quale l’avversario andava cancellato e chi aveva il potere decideva l’eliminazione degli altri”.

E aggiunge Maurice Bignani ex militante di Prima linea e di Autonomia Operaia arrestato nel 1981 poi dissociato: “I terroristi sono sempre alla ricerca di un alibi,di una giustificazione. Sono convinti di sentire il dolore del mondo con il compito di sconfiggere i cattivi e i prepotenti. Invece il male è oggettivamente male. È morte, divisione, sofferenza, dolore, crudeltà”.

Una mentalità spalleggiata negli anni Settanta anche da tanti intellettuali, giornalisti e politici (basta riandare all’impressionante numero di firme raccolte nel proclama contro il commissario Luigi Calabresi, che tanto contribuì a farne per certa opinione pubblica il nemico pubblico numero uno).

Per Picariello tuttavia la parola ‘terrorismo’ non spiega tutto. Grazie anche a una impressionante mole di documentazione all’autore interessa la persona, la sua storia, la sua speranza, i suoi errori. Non esprime giudizi politici o ideologici né a destra né a sinistra ma cerca di capire le dinamiche che hanno portato alla lotta armata affinché, ci si augura, queste non possano più ripetersi.

Ed è qui il secondo aspetto importante del libro. Un filo rosso che arriva sino all’oggi. “Un azalea in via Fani” racconta infatti anche dei periodici incontri tra terroristi che hanno scontato la pena e parenti delle vittime degli anni di piombo. “Ho passato anni a incontrare persone che avevano sulle spalle storie dolorose di quel periodo insanguinato” racconta il gesuita padre Guido Bertagna promotore dell’iniziativa. “A un certo punto abbiamo pensato che era possibile mettersi insieme, per condividere un dolore vissuto su fronti opposti”.

Ne sono nate impressionanti e imprevedibili storie di riconciliazione come quella tra Agnese Moro e Adriana Faranda o tra Franco Bonisoli e Giovanni Ricci, figlio dell’agente Domenico trucidato in via Fani e che hanno raccontato pubblicamente della loro amicizia durante la notte bianca dell’Agosto 2018 voluta da Papa Francesco. “Se ognuno rimane paralizzato nella sua condizione di reo o vittima, il rischio è quello di rimanere prigionieri della fissità del passato” commenta la neo-eletta Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia.

“E non è questione di buonismo o perdonismo di cui spesso viene accusata la Chiesa: favorire percorsi di riconciliazione non solo è giusto ma anche efficace per la crescita della società”.

Agnese Moro: “Viviamo in un mondo in cui si moltiplicano i conflitti, perché non sappiamo più curarne le radici e così ogni conflitto genera altri dieci conflitti. La nostra è una piccolissima cosa, però esiste”.

Nell’esperienza quotidiana ci si accorge che per molto meno non si è capaci di perdonare. Invece, la solitudine che alberga nel cuore anche dei parenti delle vittime apre a una possibilità apparentemente inimmaginabile ma reale perché descritta dal libro di Picariello. E per questo applicabile anche alla nostra Italia 2020 così cupa e rancorosa.

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