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Società

FUTURO DEL LAVORO

LIVIO GHIRINGHELLI - 17/01/2020

La sede dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) a Ginevra

La sede dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) a Ginevra

All’interno dei negoziati di pace conclusivi del primo conflitto mondiale nel 1919 fu istituita l’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro). Nel 2017 nell’ambito del processo di preparazione al centenario della fondazione è nata la Commissione globale sul futuro del lavoro, che ha provveduto a formulare il rapporto “Lavorare per un futuro più promettente”, pubblicato lo scorso 22 gennaio ad aggiornamento delle sfide che il mondo d’oggi reclama. Quei tempi storici erano contrassegnati da eurocentrismo e colonialismo; il mondo attuale, estremamente interconnesso e interdipendente, enormemente più variegato e plurale in termini culturali, politici e sociali, esige un aggiornamento inteso a una pace futura, di necessità fondata sulla giustizia sociale (vedi l’iniziativa “The future of Work”, che ha impegnato l’organizzazione fino dal 2015).

Anche la Chiesa si trova coinvolta nello stesso impegno (vedi il documento approvato dalla Comece, Commissione delle conferenze episcopali della Ue, nel 2018). Vanno letti i segni dei tempi alla luce dei nuovi sviluppi della digitalizzazione, dell’intelligenza artificiale e della transizione ecologica, mentre energico è l’appello lanciato a favore della dignità del lavoro per tutti.

Il metodo del dialogo sociale è frutto della struttura tripartita dell’Oil sino dalle sue origini. Ogni Paese membro è rappresentato da una delegazione composta di due delegati governativi, di un rappresentante dei lavoratori e d’uno dei datori di lavoro. Il volto d’ogni Paese quindi non coincide con quello del rispettivo governo, mentre vi si ravvisa una rappresentanza dotata di una legittimità originaria e indipendente.

Lo Stato, pur rivestendo un ruolo centrale, non riassume e non rappresenta adeguatamente tutte le componenti della società. La cittadinanza non riassume e non esaurisce tutti gli aspetti dell’identità sociale di persone e gruppi. Mentre risulta che la priorità quasi assoluta è riconosciuta al modello del lavoro salariato formale, è necessario coinvolgere quelle fasce del lavoro che l’attuale struttura inevitabilmente lascia ai margini.

Bisogna riprendere il discorso sulla differenza tra pubblico e statale, sul ruolo pubblico di entità istituzionali fondate non sullo Stato, ma sul radicamento nel corpo sociale, su forme plurali di rappresentanza. Le espressioni della società civile non possono essere confinate al massimo a un ruolo consultivo. Vanno scongiurate dinamiche di isolazionismo, nazionalismo o sovranismo.

Va ribadita la consapevolezza che l’esistenza delle norme sul lavoro devono vincolare tutti i Paesi al fine di una sorta di bene comune globale, quale già caratterizza l’Oil sino dal 1919. Non ci deve essere competizione al ribasso, comprimendo la tutela dei lavoratori, allo scopo di attrarre investimenti produttivi sottratti ad altri Paesi più rigorosi (fenomeno del dumping sociale).

Chiaramente identificato il bene comune sopranazionale, si impone l’esigenza di una autorità legalmente e concordemente costituita capace di agevolarne l’attuazione (vedi il discorso tenuto da papa Francesco il 2 maggio all’assemblea della Pontificia accademia delle scienze sociali). Siamo oggi delusi per una globalizzazione che ha condotto a maggiori disuguaglianze, onde per reazione nazionalismo e sovranismo, il conflitto di ogni Stato con tutti gli altri.

Il rapporto dell’Oil Decent Work del 1999 è inteso a garantire che tutti gli uomini e le donne abbiano accesso ad un lavoro produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana (è l’ottavo degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu per il periodo 2015-2030). Benedetto XVI nel n. 63 dell’Enciclica Caritas in veritate insiste sul significato concreto di dignità del lavoro. Non ce ne deve essere uno svuotamento retorico, che lo trasformerebbe in mera formula di rito.

Le antropologie a cui si fa riferimento sono oggi estremamente differenziate in un mondo sempre più plurale. Limitarsi a proporre un minimo comun denominatore antropologico rivelerebbe povertà di concezione e una visione prevalentemente individualista. Individuo, persona, essere umano sono termini che possono indurre ad eccessiva approssimazione. Va mantenuta la guardia contro lo sfruttamento, ma soprattutto va tenuto presente che il lavoro costituisce una dimensione fondamentale della relazione dell’essere umano con la società e con l’ambiente naturale. Vale il quadro di riferimento dell’ecologia integrale proposto da papa Francesco.

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