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Gente comune

“ABBI PAZIENZA”

DEDO ROSSI - 24/01/2020

casa-di-riposoLa “struttura” raccoglie un passato glorioso, da casa albergo per anziani benestanti milanesi si è lentamente e faticosamente trasformata in una “normale” casa di riposo costretta a fare la giusta fatica per far quadrare i conti.

I “vecchi” sono schierati all’entrata, in un grande atrio. Tre o quattro chiacchierano. Altri sono persi e spenti, concentrati sui loro bisogni primari : il cibo, l’andar di corpo, il sonno. Tutti, o quasi, su una sedia a rotelle, per oggettiva necessità (e anche perché così è più facile la gestione). Qui, nell’atrio, si raccolgono gli “ospiti” più attivi, quelli che sono in grado di relazionare. Aspettano l’ora di cena. Dopo le lunghe attese davanti ai due soli ascensori raggiungeranno la sala mensa dove altri “ospiti”, quelli meno attivi e quelli persi nei loro pensieri e nelle loro depressioni, già li aspettano con le loro sedie a rotelle poste davanti al tavolo, dove hanno passato l’intero pomeriggio guardando nel vuoto.

I “vecchi” (perché sono percepiti come “i vecchi” e chiamarli “ospiti” è solo una scorciatoia) qui sono come assenti. Hanno sguardi spenti, in cui non intuisci pensieri. Sono in attesa del tempo, che il tempo passi, che arrivi la cena, che poi qualcuno tolga la dentiera, cambi il pannolone. Qualcuno è in attesa della figlia che verrà per l’ora di cena. Qualcun altro guarda chi entra senza illudersi: non riceve visite da chissà quanto.

Al secondo piano, le Oss (operatore socio sanitario) sono due, tre nei giorni in cui tutto va di lusso, per una ventina di “vecchi”. I maschi sono pochissimi, nel rispetto delle statistiche.

Le due Oss distribuiscono il cibo, imboccano chi va imboccato, tutto in fretta perché il tempo stringe e per la fine del turno tutti devono essere a letto.

Signora, signora, a me, a me. Non mi dai da mangiare, signora, signora?” grida dal primo tavolo indicando il carrello della minestra. “Basta, taci, piantala di gridare”, grida la Oss vicino al carrello delle minestre. “Perché mi dici cosi? Signora, mi dai da mangiare”. “Basta, taci”. E si va oltre.

Un’altra ospite, lo sguardo fisso contro un muro per tutto il giorno, picchia ritmicamente col cucchiaio sul tavolo. Ripete come una giaculatoria “Oh mamma, oh mamma, la mia mamma”, in una cantilena sommessa.

Qualche parente, un figlio o una figlia in genere, arriva all’ora di cena. Si siede accanto alla propria madre, le racconta le solite cose, aiuta a versare l’acqua, taglia il prosciutto e la imbocca più come gesto d’affetto che per reale necessità. Perché stringe il cuore vederla lì, quella mamma con cui ci sono state pure difficoltà, ma che adesso vederla lì, che sbaglia i nomi dei figli nei giorni di pioggia e che ricorda invece perfettamente tutto nei giorni di sole, vederla lì crea una fatica dentro. “Portatemi via”, “Dove mamma? Sai che non possiamo tenerti a casa”, “Portatemi via”, “Ma dove mamma?”. “Non lo so”.

Signora, signora, devo fare la cacca” grida dal terzo tavolo. “Non ho tempo, smettila, falla addosso che hai su il patello”, è la risposta. “Ma come faccio, signora?”. “Come al solito, adesso è ora di mangiare”, il tono sembra un rimprovero. “Ma dici davvero, signora?” e lo sguardo gira intorno, come stupito.

Apri la bocca, piano, ecco così” dice un’altra giovane Oss, alta, magra, questa sì sempre delicata e gentile, carica di quell’affettuosa attenzione che si vorrebbe fosse cosa normale. Appoggia delicatamente il cucchiaio sulla bocca, accarezza la mano. “Ecco, bene. Ancora un altro cucchiaio, con calma”. Sorride. Ecco, sorride, parla lentamente, senza alzare la voce, con affetto, come si parla ad una persona, non ad un corpo disfatto. E passa oltre.

Al quarto tavolo, quelle che stanno meglio, si ignorano. Le sole parole che si scambiano riguardano il cibo. Mangiano a testa bassa, attente al proprio piatto. Altre parole, quando ci sono, sono aspre e insieme dolenti: “Io sono qui perché l’ho voluto io. Ho una casa con le scale e potevo cadere”. Intanto i figli non si sono mai fatti vedere e quella casa l’hanno già venduta da tempo.

Passa l’infermiera. Distribuisce le pillole, le stesse tutte le sere, in un bicchierino di plastica con scritto sopra il nome con il pennarello. È il rito che precede la fine della cena.

La donna del tavolo vicino all’ascensore grida. Un grido acuto, stridulo e faticoso. “Basta gridare, mangia e basta” grida l’Oss, quella con poca pazienza. Quasi come risposta, il grido diventa un urlo, fastidioso e disperato, senza una apparente ragione. “Basta, taci. Basta”. Sempre urlando, la donna del tavolo vicino all’ascensore solleva le mani in avanti, allargando le dita. Ha le unghie dipinte di rosso vivo, il mignolo con le stelline dipinte nelle attività del pomeriggio credendo di fare una cosa allegra. E con quelle inquiete unghie rosse, agitate tra le urla, viene portata in camera per terminare solitaria la cena.

Dopo la frutta, i “vecchi” che hanno qui i figli vengono portati sulle sedie a rotelle verso le camere. E avanti e indietro, in fila, per far passare il tempo, per aspettare l’arrivo delle Oss (sempre le stesse due). “Mettetemi a letto”. “Non possiamo mamma, bisogna aspettare che arrivino loro a metterti a letto”. “Ma mettetemi a letto”. “Non possiamo mamma, abbi pazienza”. E così da anni.

Le Oss portano gli elevatori, cambiano i pannoloni, caricano il “vecchio” nel letto, sistemato in qualche modo. La camicia da notte non è sempre proprio a posto, il cuscino è un po’ troppo su, ma va bene, se ci sono i parenti questi dettagli li guarderanno loro. È un mestiere così, troppo poche, da sfinirsi tra minestre e pannoloni, dentiere e grida. Se non si ha grande cuore o se si hanno problemi addosso, è un mestiere da inferno.

Se è la sera “corta” (cioè quando iniziano i servizi da questo corridoio) sono le sette di sera. Se è la sera “lunga”, quando iniziano dall’altro corridoio, sono le otto di sera. È così, dicevo, da anni. “Ciao mamma, vado a casa”. “Ma dove vai, vai già via?”. “Devo andare a casa a fare da mangiare, sono qui da tanto, vengo domani”. “Ma mi lasci qui? Perché mi lasci qui?”.

Per uscire si passa ancora dalla sala della cena. Chi non ha parenti è ancora lì, sulla sua sedia a rotelle, davanti al tavolo in attesa delle Oss. Qualche donna sfinita dorme già, la testa piegata sul petto, la lingua di lato fuori dalle labbra. Quella che aveva gridato che doveva fare la cacca è ancora lì con la cacca nel pannolone. È tranquilla, spenta direi. Recita “Angelo di Dio, che sei il mio custode” e alzando la voce per farsi sentire meglio “Illumina custodisci reggi e governa me”.

La “struttura” si prepara alla notte. I “vecchi” hanno mangiato, sono stati cambiati e sono a letto. Il compito è stato fatto, non manca altro, il turno è finito.

Ci si chiede se esiste un modo per andare oltre, per fare altro. È solo questo il modo per prendersi cura dei nostri “vecchi”, di quelli seguiti da parenti e anche di quelli che sono stati dimenticati qui in attesa. La presenza di una associazione di volontari, disposti a vedere nel “vecchio” non solo un corpo da pulire e nutrire può essere d’aiuto, ad esempio? Non può esserci altro anche nelle attività del pomeriggio? E soprattutto una attenzione delle comunità parrocchiali per questi “vecchi” non sarebbe opportuna? La celebrazione della Messa della domenica nella struttura è proprio l’unica cosa che una parrocchia può fare per i “vecchi? In tutti i consigli pastorali ci si pongono queste domande? O meglio ancora: ci si accorge che esistono queste spente nuove povertà di questi nostri tempi inquieti?

La giovane Oss del secondo piano, con la sua gentilezza e con la sua attenzione, è un segno importante, un dettaglio di speranza. Ma pensiamo che non può bastare. Non può bastare.

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