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Opinioni

PESTARE I CALLY

FABRIZIO MARONI - 31/01/2020

callyA pochi passi dall’inizio di Sanremo 2020 si può già sentire l’eco delle polemiche che come da programma accompagnano il festival. A dire il vero, le polemiche anticipano quasi sempre l’inizio dello show; quest’anno, oltre alle dichiarazioni di Amadeus in conferenza stampa, è stato Matteo Salvini ad assumersi l’onere di movimentare il prefestival.

L’ex ministro, e dopo di lui una lunga lista di celebrità, ha criticato il rapper Junior Cally, classe 1991, alla sua prima comparsa sul palco dell’Ariston, per il testo non particolarmente galante di una sua canzone. “Si chiama Gioia” (facile intuire la rima scelta dal giovane cantante) è un brano del 2018 che racconta di una ragazza in termini tutt’altro che lusinghieri per il genere femminile. L’anno scorso un altro rapper della stessa generazione, Achille Lauro, era finito nell’occhio del ciclone mediatico a causa del testo di Rolls Royce, un inno alla vita senza regole (qualcosa di simile a “Vita spericolata” di Vasco Rossi).

Insomma, Sanremo non sembra avere un buon rapporto con un certo tipo di musica; nello specifico il rap e il trap (i meno giovani cerchino su internet o chiedano ai propri nipoti che cosa sia questa “trap”). Le tematiche sono varie, il panorama artistico grande e multiforme. Tuttavia il consumo di droga, l’esaltazione della ricchezza, la vita sregolata e la donna-oggetto sono immagini ricorrenti nel genere. Un genere che ha conquistato la vetta delle classifiche mondiali, non solo italiane.

Ovviamente non bisogna limitarsi ad accettarne i contenuti passivamente; criticare un testo, soprattutto se considerato offensivo, è legittimo e giusto. Una voce critica è utile perché offre una visione della realtà alternativa a quella proposta, in questo caso, da Junior Cally. Ma appiccicare l’etichetta di “scandaloso” a un genere musicale ed escluderlo dal festival significa rinunciare a comprendere le ragioni per le quali quel genere è così tanto popolare.

La sregolatezza, non serve dirlo, è una vecchia compagna dell’arte, così come la droga. Nella musica leggera, poi, siamo stati abituati alla sua presenza fin dagli anni ’60, quando i Beatles cantavano Lucy in the Sky with Diamonds. Negli stessi anni prendeva piede il rock psichedelico, un sottogenere nato letteralmente dalla droga.

L’idea del maschio playboy, che prevarica la donna e si circonda di “bitches”, è portato all’eccesso nel rap e nel trap. Bisogna considerare, innanzitutto, che questi generi sono fondamentalmente caratterizzati da un linguaggio crudo, senza metafore annacquate. Il rap è nato nelle strade dei ghetti americani, in contesti di povertà, e i suoi primi esponenti erano giovani neri emarginati.

La concezione della donna come un oggetto, però, non è certo un’invenzione di qualche rapper in erba. Viviamo in una società fortemente maschilista; sebbene l’opinione pubblica sia diventata, nel tempo, molto più sensibile sulla rappresentazione della donna, giovani come Junior Cally sono cresciuti inondati da immagini di ragazze seminude che fanno da comodino a qualche presentatore, solo per fare un esempio. Non dobbiamo dunque stupirci se quelle stesse immagini vengono ora sublimate e portate all’estremo dalla musica leggera, espressione della cultura in cui nasce.

Forse è il caso che i polemisti sterili facciano un tuffo nella realtà: quella è la musica che una numerosa fetta di giovani ascolta e conosce. Se il pubblico di Sanremo si sente eccessivamente toccato dai testi, è perfettamente comprensibile. In effetti, certi cantanti stonerebbero sul palco dell’Ariston. Ma allora è opportuno cambiare la definizione di “Festival della canzone italiana” in “Festival della canzone italiana ascoltata da chi ha più di 30 anni”.

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