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Libriamo

INQUIETUDINE

DEDO ROSSI - 31/01/2020

masinaCi sono giorni in cui parlare di speranza, cercarla nella gente e nelle cose, diventa una necessità. In questi tempi inquieti e disarmanti, questo domanda di speranza diventa più forte, quasi un grido.

Ripescare dallo scaffale alto della propria biblioteca un vecchio dimenticato libro di Ettore Masina (varesino, giornalista, politico e scrittore) è come cercare un conforto. O per lo meno un confronto. E di questo forse abbiamo bisogno.

Il libro, praticamente introvabile, è del 1974: “Quando dico speranza”, Coines Edizioni (con fotografie di Dario Bellini, Calogero Cascio e Gaetano d’Amico).

Già nelle prime pagine, Ettore Masina dice tutto, spiega il suo progetto o meglio il suo “bisogno”: “Volevo scrivere un libro sulla speranza. Credo che volevo scriverlo per rassicurarmi: ragionando sulla speranza, avrei dimostrato a me stesso che ne possedevo ancora. Avevo bisogno di questa rassicurazione”.

E più avanti: “Càpitano giorni in cui questa solitudine non riesce a spezzarla neppure l’incontro con gli altri. (…) Il materialismo ateo più diffuso che ci grava addosso come un mantello fatto pesante dalla pioggia, non è quello filosofico che nega Dio con concetti elevati: è questa povera mediocrità in cui, per Dio, semplicemente non c’è posto. Le speranze del nostro oggi le ha prefabbricate per noi un sistema che ha abolito non già come pericolosa ma come inutile (il che è condanna ben più grave) ogni trascendenza”.

Da qui parte il progetto di questo libro, un libro che vuole essere ricerca e incontro, cioè un gesto d’amore. Spiega Masina che in questa indagine per scovare segni di speranza i testimoni di questa speranza sono molti di più di quanto si possa immaginare. “Basta guardarsi in giro con intelletto d’amore”, scrive. E prosegue: “Riprendere contatto con la speranza, accettarla con tutti i suoi rischi è urgente per i cristiani, e Dio ci spinge incessantemente in questa direzione”.

E ancora: “No, la speranza non è mai facile, non è mai banale o illusoria come un “vedrai che andrà bene”; non è mai una forza che porta al di là del difficile. La speranza porta nel mezzo del difficile (…) Non è mai un progetto: perché la speranza non ha lineamenti precisi, la speranza “si fa”, è il presagio di un’alba”.

Per cercare questa speranza, per darle parola e terreno di incontro, Masina ha raccolto numerosi testi che sottolineano questo comune ricerca, questo segno lasciato o sognato. E questo segno Masina l’ha trovato in autori assolutamente diversi, atei o credenti, lontani o vicini, proprio perché “questa” speranza non ha gabbie in cui può essere racchiusa facilmente, se abbiamo gli occhi attenti.

Ed ecco questi testi di Thomas Merton, David Maria Turoldo, Antonio Gramsci, Elio Vittorini, Alexandros Panagulis, Emilio Ravel, Helder Camara, Ernesto Balducci, Natalia Ginzburg, Wilhelm Reich, Paolo VI, Danilo Dolci, Sergio Zavoli e molti altri. E per finire con un capitolo intitolato “Una Chiesa nuova”, dove la speranza di una Chiesa sempre più vicina agli ultimi si esprime intensa e spesso dolente attraverso le parole di don Milani, di Papa Giovanni, di Josè Maria Gonzales Ruiz, di Roberto Tucci, di Raniero La Valle e di Paul Gauthier e altri.

Ed è proprio con il prete francese Paul Gauthier (prete operaio in Palestina) l’incontro fondamentale nella vita di Ettore Masina, a cui si lega il tema della speranza, motivo conduttore di tutta l’esperienza professionale e umana.

Nato a Breno nel 1928 e morto a Roma nel 2017, varesino prima di trasferirsi a Roma, Masina lavorò come giornalista a “Il Giorno”, per cui segue il Concilio Vaticano II come vaticanista. Entrato in Rai nel 1969, nel 1983 eletto deputato della Sinistra Indipendente nelle file del PCI, ha fatto parte della Commissione Esteri e del Comitato permanente per i diritti umani. Tra i suoi libri ricordiamo, ad esempio, i romanzi “Il volo del passero”, “Comprare un santo”, “I gabbiani di Fringen”, o tra i saggi “Il Dio in ginocchio”, “Un inverno al Sud”, “L’arcivescovo deve morire” (testo fondamentale su monsignor Romero), “Diario di un cattolico errante”.

In seguito all’incontro con Paul Gauthier del 1963, Ettore Masina fonda, con la moglie Clotilde Buraggi, la “Rete Radiè Resh”, associazione che prende il nome da una bambina palestinese morta di freddo e di stenti dopo che la sua casa era stata distrutta dagli israeliani. E Varese ha rappresentato una tappa fondamentale nella storia di Masina e della Rete, grazie anche all’incontro con Remigio Colombo, professore di filosofia al Liceo Classico “Cairoli”. La Rete inizia finanziando la costruzione di case per il palestinesi a Nazareth e a Betlemme (e in seguito in America Latina) per proseguire poi con un grande fermento di iniziative. Ma ruolo fondamentale della Rete è stato quello di far conoscere fuori dai canali istituzionali ufficiali le “ragioni dei poveri”, dare loro voce e, appunto, speranza.

È all’interno di questo percorso professionale, politico, ma soprattutto umano e cristiano che si colloca il libro “Quando dico speranza”, che sa mantenere anche a distanza di quasi cinquant’anni intatto e attuale il suo grido che ci interroga. E Dio solo sa quanto abbiamo bisogno tutti di essere “inquietati” da queste domande.

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