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Stili di Vita

1984, 2034

VALERIO CRUGNOLA - 21/02/2020

gfSolo il pensiero critico può cogliere le minacce insite nei mutamenti epocali che mettono sottosopra le nostre vite. I vantaggi si percepiscono immediatamente, ma l’esca forse è avvelenata. Come ad ogni bivio radicale, ci chiediamo: Da dove veniamo? E dove andiamo?

Veniamo dal primo sistema liberale vittorioso: la rivoluzione inglese del 1680 da cui sono discese le democrazie costituzionali. Il contenimento dei poteri dello stato tutelò i diritti individuali. Il modello di un originario patto tra pari per cedere allo stato il monopolio della violenza legittima sottomise lo stato al rispetto dei singoli come titolari legittimi dei diritti inalienabili e della sovranità. Nei sistemi costituzionali il potere politico fu il custode dei diritti, non l’autorità che, per benevolenza, poteva concederli ma altresì, alla bisogna, revocare. Il potere statale sottostò a limiti definiti, regolati e condivisi. L’obbedienza dovuta al reciproco e paritario contratto costituzionale fu bilanciata dal diritto di rivoluzione dei cittadini ove quei limiti fossero stati varcati.

Il successivo affermarsi della democrazia non fu sempre compatibile con i diritti. Si ebbero democrazie illiberali e autoritarie, quale la Francia di Napoleone III. La guerra interruppe un difficile cammino, e terremotò tutto: l’impero russo, Italia, Germania e Austria caddero sotto regimi totalitari declinati in senso liberticida, a sinistra quanto a destra. Ad essi va aggiunta una dozzina di dittature orientate a destra. I totalitarismi furono statolatrici: lo stato era tutto, l’individuo un mero ingranaggio. Il potere decisionale dello stato-partito sottomise l’economia di mercato o la soppresse. In 1984, Orwell spinse la sua sana controutopia fino ad immaginare un potere statale in grado di controllare la psiche: una forma di totalitarismo perfetto, cui nessuno poteva sfuggire.

La guerra perduta, con i crimini che la accompagnarono, portò i fascismi alla rovina. In loro vece l’Europa occidentale conobbe una democrazia liberale equitaria compiuta. Senza intaccare la proprietà e il mercato, il welfare state domò i primordiali istinti animaleschi del capitalismo promuovendo una giustizia redistributiva.

La vittoria del 1945 trasformò lo stalinismo in un impero geopolitico in apparenza impenetrabile. Ma furono pur sempre il terrore e il monopolio del potere, non la psicopolizia, a tenere in vita la tirannide sovietica. Il fallimento dell’economia pianificata nelle mani di un partito-stato creò diseguaglianze, privilegi, insuccessi, persecuzioni, catastrofi ambientali e morti. La disillusione fu repentina, ma il logorarsi del regime fu lentissimo, finché un timido e tardivo moto riformatore suscitato dai conflitti tra il centro e la periferia bastò a far crollare l’impero.

In Cina il totalitarismo sopravvive grazie all’apertura all’economia di mercato. L’apparato centrale e locale del PCC è una piramide castale coesa che regge un’economia capitalistica tutelata da un sistema di prevenzione e repressione autoritaria del dissenso che resisterà fino a che vi sarà crescita e boom dei consumi. Non è più il dominio del PCC a generare l’economia di mercato; è l’economia di mercato a riprodurre il dirigismo totalitario. Anche l’impero mondiale degli oligarchi del capitalcomunismo si regge sulla produzione di merci mediante merci e il sistema finanziario. Il mercato senza pluralismo politico e diritti della persona non genera libertà e facilita nuove sottomissioni.

Mai la divaricazione tra liberismo e liberalismo è stata tanto grande. I perni del mondo globale, in interazione tra loro, si reggono su un liberismo illiberale e illibertario. A est il monstrum cinese; a ovest il “capitalismo della sorveglianza” analizzato dalla politologa americana Shoshana Zuboff. Il monopolio delle tecnologie informatiche e delle conoscenze nelle mani di pochi oligarchi americani prefigura un sistema capitalistico che a parole appare compatibile con la civiltà e le regole della democrazia liberale, ma che intanto sembra avviato a realizzare indisturbato la profezia orwelliana.

Il controllo sulla mente e sui corpi degli individui si attua senza più bisogno di sistemi autoritari. Per le oligarchie globali, il ricorso alla forza mediante gli strapoteri militari liberticidi che dagli anni ’50 a poco tempo fa hanno consentito agli Stati Uniti il controllo di Asia, Africa e America Latina, e dal 1945 al 1989 all’URSS un grande impero ancor più liberticida, è uno strumento controproducente. Gli oligarchi influenzano la vita civile senza passare dallo stato: non importa se i governi sono retti da democrazie ancora pienamente liberali, da democrazie plebiscitarie che conservano l’esteriore involucro del voto o da regimi autoritari legittimati da un consenso non estorto a forza e non minato da un dissenso destabilizzante. Importa controllare, influenzare, conoscere tutto di noi facendo luce sui più piccoli anfratti della nostra vita, in modo da vendere e da mantenere un sistema produttivo insensato che minaccia tutta la biosfera. Il populismo di estrema destra al governo negli USA ha ingaggiato un braccio di ferro con la Cina non in quanto paese totalitario, ma come paese concorrente sul mercato globale.

Il compiersi della profezia orwelliana sembra slittare di mezzo secolo. “Il capitalismo della sorveglianza – scrive la Zuboff – è un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita”. Qualunque tecnologia in grado di registrare e trasmettere informazioni ci insidia. I membri del cartello dei Big Data – Amazon; Google; Windows; il blocco Facebook, Messenger, Instagram e Whatsapp; Twitter; Youtube, Snapchat, Wikipedia e altri minori che raggiungono “solo” tra i 200 e i 500 milioni di utenti, come Spotify – sanno tutto di noi. Non loro in quanto Bezos o Zuckerberg (un tipo poco raccomandabile, come Cambridge Analytica ha provato), ma i loro algoritmi, che si intrecciano ormai in cartelli sempre più vasti, in grado di raggiungere miliardi di viventi nel nostro sovrappopolato pianeta. Tra pochi anni a questi oligarchi si affiancheranno i regimi di semimonopolio che si prefigurano nella robotica. Tra algoritmi e robotica vi sarà uno scambio continuo di informazioni.

La rete di sorveglianza si dirama a piramide fino a raggiungere ogni singolo nel corso di una intera giornata. Ogni dato viene catturato. Tutto è tracciabile: i nostri interessi, anche occasionali; i like; i consumi acquisiti in rete o con “tessere punti”; le emozioni; le inclinazioni politiche; i gusti; le informazioni che abbiamo cercato; il luogo in cui siamo; volendo i nostri risparmi e i nostri redditi. Siamo accerchiati, espropriati e alienati: venduti e deprivati. Nel capitalismo della sorveglianza “la produzione di beni e servizi è subordinata a una nuova architettura globale per il cambiamento dei comportamenti”.

Ci prostituiamo felici e consapevoli. In cambio dei dati, in modo comodo e gratuito, un aggeggio multifunzionale chiamato smartphone ci porta il mondo nel palmo della mano: servizi; relazioni; spazi di ostensione di noi stessi; informazioni agevoli; opportunità di acquisto; consumi culturali come libri, film, musiche, foto; strumenti di registrazione, condivisione e trasmissione. A queste fittissime maglie non regaliamo solo i nostri dati: regaliamo anche il nostro tempo, la vera risorsa della vita. L’individualizzazione che la società informatizzata di massa ci promette si concretizza nel suo opposto: una massificazione feroce, un conformismo globale, un’esposizione assoluta e senza difese condita spesso da regressioni infantili.

La comodità oscura le insidie, specie se persistono le forme di un pluralismo liberale svuotato. Il capitalismo della sorveglianza accoglie chiunque offra dati: vecchi e giovani; maschi e femmine; americani e cinesi; obesi e magri; vegani e carnivori; normosessuali e pervertiti, quale ne sia l’orientamento; atei e fondamentalisti religiosi; colti e analfabeti di ritorno; illuministi e populisti; inclusivi e razzisti; europeisti e sovranisti; ambientalisti e negazionisti del cambiamento climatico; scienziati e teorici delle scie chimiche; informati e vittime di cialtroni; aristocratici e tatuati; astemi e alcoolisti; ammiratori di Bach e ammiratori di Achille Lauro, con tutte le varianti che stanno entro o oltre queste coppie categoriali. Anche la democrazia è in apparenza salva. Ciascun individuo può ricevere informazioni da tutti e esternare opinioni a chiunque, e con ciò sentirsi attore e protagonista.

Purtroppo non è così. Se tutti gli individui, conformandosi, possono coesistere, altrettanto vale per i sistemi politici. Il nuovo capitale del commercio dei dati lascia integri il capitale finanziario, quello industriale e i know-how tradizionali. Anzi, li favorisce: la proprietà non è minacciata, il liberismo nemmeno. Ma i sistemi autoritari di Xi, Putin e Erdoğan e quelli né liberali né democratici al potere in Polonia, Ungheria, Brasile – per non citarne che alcuni – prosperano molto meglio degli altri in questo habitat inquinato.

D’altronde, come possiamo rinunciare a così grandi vantaggi? In fondo cosa sono la libertà pubblica e la privacy in un’epoca in cui la democrazia liberale è in crisi, ma tutti in cambio vogliamo consumare e mostrarci impudichi senza più privacy?

Il presente ci vede arresi al monopolio digitale. Per non pentircene in un ipotetico 2034, dovremmo difendere i nostri dati per difendere la democrazia, e difendere la democrazia per difendere i nostri dati. Ne parleremo nei prossimi articoli.

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