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Gente comune

NOTE LOOK

DEDO ROSSI - 28/02/2020

musicaDoveva essere una mattina tranquilla, in centro, per acquistare un maglione e magari anche un cappello meno pesante, che potesse andare bene in primavera. Al Coin, una esuberanza di sconti che sembra quasi che ti regalino le cose. La musica ha un volume troppo alto. Lo noto subito con fastidio.

Non ho mai sopportato troppo quella che Nicola Piovani nel suo libro “La musica è pericolosa” definisce “la musica passiva”. Piovani individua in questa definizione “la musica che non ho scelto io, ma che devo sentire per forza mentre compro l’insalata al supermercato o mentre ceno in un ristorante o mentre faccio fisioterapia o mentre sto sotto il trapano di un dentista”. Credo che sia chiaro.

In ogni posto, oggi più che mai, sei bombardato da questa musica passiva. E negli ultimi tempi, almeno così mi pare, il volume si è alzato, il rumore si è fatto sempre più invadente. Oggi si usa così. Se fossi una commessa del Coin, penso, tornando a casa dopo una giornata bombardata da questa musica, litigherei con altri automobilisti, insulterei mio marito, tratterei malissimo i miei figli, urlerei contro i vicini e finirei a letto subito dopo cena spossata e immusonita, distrutta dalla musica.

Non è questione di musica. È vero che le mie conoscenze musicali sono datate. Considero avanguardia ancora Guccini e mi intenerisco nel sentire Placido Domingo nella Tosca o Lauzi in “Ritornerai” e cose del genere. Mi rallegra e insieme mi immalinconisce Toquinho, risento volentieri in solitudine Brel e cerco di ascoltare Levante per capire come mai piace a mia nipote, fingendo di capire. Ma non è per il tipo di musica e per la mia mancata conoscenza dell’attualità musicale che mi sono irritato. È per il volume. E per l’invadenza.

Per curiosità, grazie all’applicazione Shazam sul cellulare, scopro che al Coin oggi furoreggia “The look” di Roxette e subito dopo Kura con “Namek”. Poi Shiva in “Bossoli” e Bonde do Tigrao “Martella martellao” “Vou passar cerol na mao”. Non chiedetemi altro. Gente mai sentita nominare. Non è questo il problema. Ma provate a scegliere un maglione proprio sotto le casse da cui escono queste musiche a volume troppo alto. Il risultato è semplice: esco.

Cerco quiete nell’acquisto in un altro negozio. D’altronde un maglione mi serviva. Entro, lì di fronte, da Benetton. E qui stesso problema, con l’aggravante del fastidio visivo di un bombardamento di cartelli con “sconto 60 per cento” a cui non puoi sfuggire. Solo gli incentivi per la ristrutturazione delle facciate di casa hanno uno sconto superiore, fino al 90 per cento, mi capita di pensare. Quindi, avanti tutta. Qui il volume della musica è altrettanto alto. Sempre Shazam mi aiuta ad aumentare le mie conoscenze. È la volta di “Lowdown” di Vicetone o Boz Scaggs non ho capito bene. Segue #Dubbs &Borgeous con “Tsunami”. Leggo sempre da Shazam, e non so neppure quale sia il titolo della canzone e quale l’esecutore. Nomi che mi sono sconosciuti.

Qui, l’aggravante è il volume. Ma la necessità di impormi musica di sottofondo, anche a volumi meno irritanti, mi crea comunque disagio. Erik Satie già nel 1917 chiamò “Musique d’ameublement”, cioè “musica d’arredamento”, quella musica imposta di sottofondo, non scelta, non ascoltata in quanto tale, ma messa lì come per colmare un vuoto, per liberare la mente da pensieri propri. In altre parole: non necessaria.

Ricorda sempre Nicola Piovani: “Nella musica da parati la qualità di quel che si trasmette è un dettaglio marginale. In alcune trattorie, specie nell’Emilia delle terre verdiane, vengono profusi brani d’opera a volume medio-basso. Violetta che piange morendo di tisi, Calaf che all’alba vincerà, Turiddu che prega la mamma, tutto tra tavole imbandite e ganasce gonfie”. E prosegue sempre Piovani: “ Nella maggior parte dei casi si diffondono canzoni i cui versi, in quei contesti, risultano decifrabili a fatica. E a soffermarsi nell’ascolto spesso si scopre che la voce ci sta cantando di un amore straziante, un dramma sociale o una protesta antisociale, mentre noi compriamo surgelati o arrotiamo bucatini con la forchetta”.

O compriamo maglioni, come nel mio caso. Con l’aggravante del volume eccessivo. Per questo, esco da Benetton ed entro da Zara, lì di fianco. La musica ha un volume più contenuto ma la proposta musicale è identica. Per me fastidiosa. Anche qui però, nonostante il minor volume, non trovo il maglione che mi può piacere. Andiamo avanti.

Altro tentativo. Entro da Stradivarius, all’inizio di via Cavour, sull’angolo dove in tempi migliori aveva il negozio di scarpe il Figini. E qui raggiungiamo l’apoteosi. Forse per la clientela più giovane e abituata il volume, se questo fosse possibile, è ancora più alto. Il “dum dum dum” impetuoso Shazam mi svela che è The Phoenix “Fall out boy”, di cui ignoravo l’esistenza. Certo che scegliere un maglione mentre dalla radio si sentono martellare in inglese frasi tipo “Tu sei un mattone legato a me che mi trascina verso il basso” per proseguire con “Sigillo le nuvole con una fodera grigia. Gli sposati fanno una carriera da rapinatori di banche perché il mondo è solo un bancario” insinua dei dubbi sulla scelta del maglione. E in effetti esco.

Passaggio rigeneratore da Feltrinelli senza musica (è una scelta o si è rotta la radio, mi chiedo a questo punto). Da Intimissimi in corso Moro, la musica sfiora il marciapiede e tre ragazze nere (nel vestito, intendo) mi osservano. Sono imbarazzato e vado oltre. Da Oviesse la musica è più diffusa ma in questo caso il rumore costantemente soffiante dei condizionatori e delle campane di mezzogiorno la sovrasta. E il risultato di fastidio è identico. Poco male, penso. Andiamo oltre.

Concordo con Piovani nel confessare che “mi rendo conto che è un comportamento snob, involontariamente prepotente nei confronti di altri clienti i quali gradiscono questa usanza dilagante”. E concordo anche nel pensare che “è un mio capriccio egoistico a farmi sperare in una normativa europea sulla musica passiva simile a quella sul fumo passivo e so anche che si tratta dell’ennesima battaglia persa”.

In sintesi, “la musica merita rispetto, che si chiami leggera o pesante, colta o commerciale. Usarla come uno zerbino sonoro mi ricorda quei milionari texani cafoni che hanno la Gioconda stampata sugli asciugamani e il macinapepe a forma di Tour Eiffel, con Albinoni di sottofondo”.

Scrive Danilo di Diodoro sul “Corriere” del 20 febbraio scorso: “La musica sa far emergere un senso di appartenenza al gruppo, può lenire una tristezza o farla affiorare, sa riesumare lontane memorie dolorose o felici, può accompagnarsi magnificamente alle immagini sottolineandone gli aspetti emozionali”. E forse per “creare emozioni” nei negozi pensano di conquistarmi e farmi comprare più allegramente il mio maglione con la tessera Benetton e lo sconto sessanta. E alzano il volume forse perché non mi sto decidendo.

Eppure, è sempre Danilo di Diodoro nell’inserto Salute del Corriere che scrive però che : “Una musica percepita come sgradevole attiva il sistema neurovegetativo simpatico, mediato soprattutto da adrenalina e noradrenalina, che spingono l’organismo verso una sorta di condizione di allarme interno che interferisce con la prestazione fisica”.

Sarà colpa della musica o dell’adrenalina, ma il mio maglione non l’ho ancora comprato.

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