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Editoriale

ETSÌ

MASSIMO LODI - 06/03/2020

mascherinaRicorda il filosofo che t’accorgi della felicità quando ti gira le spalle, andandosene. Prima ce l’hai di fronte, ma non la vedi. In queste settimane ci accorgiamo di che cos’era, se non la felicità, almeno la serenità del nostro vivere, e quanto ci costa averla perduta. Ci costa materialmente e spiritualmente. Siamo sempre scortati da difficoltà, triboli, delusioni, tormenti eccetera: che banalità dirlo. Però un conto è penare per sé stessi trovando qualche raccordo con esperienze altrui, e un conto è finir dentro l’incubo collettivo, quotidiano, ossessionante. Cioè quanto sta accadendo.

Angosce nuove, vite cambiate, interrogativi irrisolti. Ma si nota un tic collaterale positivo: il quadro nero è rigato dal lumen dell’inchino verso debolezze e fragilità, e si rafforza il proposito che solo un impegno comunitario riuscirà a curarle/guarirle. Oltre naturalmente agl’indirizzi politici, alle misure sanitarie, alle salvaguardie sociali se troveranno armonia nella catena di comando. Non per una bizzarria le chiese, nonostante i vincoli di frequentazione, registrano presenze numerose di preghiera. La preghiera d’insieme, che nei secoli ha sempre rappresentato un sostegno alla solidarietà e alla speranza. Non c’è droplet (il metro di distanza dal gocciare casomai contaminante) che possa tener lontana l’affezione consolatoria da chi la richiede.

Riaffiora l’antica virtù del bene comune, messa in un canto dai vizi della società signorile di massa, come racconta un libro recente. Molti, troppi s’erano abituati a navigare tra superficialità e apparenza, così innescando lo stupidario di massa affermatosi negli anni del default di valori creduti inossidabili e invece ricopertisi di rugginosa polvere. Il coronavirus costringe a una riscrittura della narrazione contemporanea, al netto di eccessi d’allarme, inettitudini di potere, catastrofismi economici, speculazioni tribunizie. “Si tratta anche d’un modo -ha chiosato l’arcivescovo metropolita di Bologna, il cardinale Matteo Zucchi- di riappropriarci del senso vero della Quaresima, che mette al centro il concetto di rinuncia”.

Rinuncia non vuole dire cruda privazione, e ciascuno paghi ciò che gli tocca pagare. Rinuncia vuol dire allontanare il proprio egoismo, riscoprendo i doni ricevuti e scordati. Vale riepilogarne nell’intimo della coscienza l’elenco, e apprezzarli uno per uno (pietas e carità in cima), dopo averli liquidati come robivecchi qualunque, non meritevoli di premure speciali e di continue elargizioni.

La grande paura si vince con piccoli atti di coraggio, gesti minimi di riguardo, parole generose di amicizia. Un sociologo americano sottolinea l’adeguato/saggio comportamento dei cristiani nelle epidemie di molti secoli fa. Non fuggivano al modo dei pagani, abbandonando le città. E non evitavano il contatto con chi stava male, viceversa assistendolo. Il risultato di quest’impegno di fede (Vangelo e croce) praticato con agile e ostinato pragmatismo (‘miracolo’ e ‘scandalo’) fu un tasso di sopravvivenza dei cristiani maggiore di quello dei pagani.

Adattare l’esempio alla nostra epoca sarebbe scioccamente esagerato. Però non lo è auspicare che uno starnuto di saggezza -etsì fra tanti ehno- potrebbe venirci in soccorso, risultando l’unico di cui non diffidare. Alla fine la storia si rivela sempre in buona salute, purché si abbia la voglia di studiarne la cartella clinica con l’aiuto degli esperti.

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