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Attualità

MEDIA/1 PRIMA LINEA

SERGIO REDAELLI - 13/03/2020

giornaliIl virus e l’informazione, un rapporto esplosivo. La Rete e molti italiani in questi giorni bocciano i media: hanno fatto una narrazione catastrofista, angosciante e talvolta imprecisa del contagio, finendo per danneggiare l’immagine dell’Italia. E i sociologi provano a interpretare l’ondata di critiche: il virus ha lanciato una sfida all’identità del giornalismo – dicono – grazie al web i cittadini, sempre più in cerca di protagonismo e visibilità, hanno mutato posizione da oggetto a soggetto della comunicazione e rifiutano la mediazione di giornali e telegiornali a cui non riconoscono più il ruolo di orientamento. Nel Paese si è diffuso un antigiornalismo parallelo all’antipolitica.

Eppure le cronache del virus Covid-19 parlano anche degli inviati in prima linea che rischiano di persona: si va dal giornalista Rai positivo dopo una trasferta in zona a rischio ricoverato allo Spallanzani di Roma, al cronista dell’Eco di Bergamo contagiato, a quello milanese che lavora per la tv svizzera costretto all’auto-esilio dopo una visita ai parenti nel Lodigiano. E ancora il reporter diffidato dalla Finanza a Casalpusterlengo mentre raccoglie testimonianze, la troupe tv derubata dell’attrezzatura davanti all’ospedale e i tanti “inviati speciali” messi in quarantena al rientro.

L’Associazione lombarda dei giornalisti si è sentita in dovere di ringraziare “l’abnegazione di chi si è trovato a operare in condizioni difficili, affrontando turni e orari pesantissimi e la quarantena per informare la popolazione”. Per non parlare delle condizioni critiche in cui l’emergenza riduce molte redazioni. Superlavoro, colleghi a casa a scopo preventivo, scuole chiuse e necessità di gestire i figli ricorrendo allo smart-working che non tutti i direttori concedono. Qualche cronista suscita il comprensibile fastidio degli abitanti delle zone contagiate andando a caccia di persone con le mascherine per fotografarle. Sono le irritanti schiavitù del mestiere. Ancora meno accettabili se rapportate a centinaia di morti e contagiati.

È doveroso sottolineare lo spirito di sacrificio delle categorie di lavoratori a rischio in questa tremenda epidemia, medici, infermieri e personale sanitario in primis, sempre nel cuore dell’emergenza, e poi esercenti, farmacisti, forze dell’ordine, personale degli uffici pubblici e tanti altri, ma sarebbe ingiusto dimenticare chi per lavoro è tenuto a informare. Quello dei giornalisti, dei fotografi e degli operatori dell’immagine è talora un ingrato mestiere che attira più critiche che lodi. Ma soggetto come pochi altri, con o senza virus, a minacce, insulti, aggressioni e intimidazioni.

Tuttavia mai come ora, si diceva all’inizio, l’opinione pubblica giudica il modo in cui i media lavorano. “Ci vuole buon senso”, raccomanda il decano Piero Angela e il presidente dell’Ordine Carlo Verna richiama i giornalisti al rispetto delle regole deontologiche: “Servono responsabilità, verifica delle fonti, rifiuto del sensazionalismo, rispetto della dignità dei malati, linguaggio appropriato e continenza nei titoli. Senza tacere gli eventuali rischi e le cautele da attuare evitando enfatizzazioni e allarmismi. Per i comportamenti al di fuori delle regole deontologiche – aggiunge – sono possibili sanzioni attraverso il Consiglio di disciplina”.

Detto fatto. Il comitato esecutivo dell’Ordine ha deferito al Consiglio di disciplina il giornale Libero per un titolo di prima pagina esprimendo “distanza e dissenso per la reiterata scelta redazionale su temi di grande rilevanza sociale”. Il titolo di martedì 4 marzo sotto accusa strillava “Virus alla conquista del Sud” con riferimento all’allargarsi dell’epidemia scoppiata al Nord verso le regioni meridionali. Corredato dall’occhiello “L’infezione crea l’unità d’Italia” e dal sommario “30 infetti in Campania, 11 nel Lazio, 5 in Sicilia e 6 in Puglia: ora sì che siamo tutti fratelli, finita la caccia all’untore del Nord. Emergenza in Lombardia, si allarga la zona rossa”.

Eccessivo clamore mediatico? Poche notizie positive e sdrammatizzanti? Troppi titoli “contagiosi” sparati in prima pagina? Rispondendo a un lettore, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana scrive: “Il sistema dell’informazione deve fare la sua parte. Conoscere cosa ci sta accadendo, sapere che ci sono misure che dobbiamo mettere in atto per noi, per le nostre famiglie, per i nostri amici e per i colleghi di lavoro è indispensabile. Informare è necessario, altrettanto necessario è farlo con oggettività, serietà e senza provocare allarmi che vadano oltre la realtà. Non facciamoci male da soli esagerando”.

E di esagerare è l’accusa che molti fanno ai media. La conduttrice di La7 Myrta Merlino invita la categoria all’autocritica: “Dobbiamo modificare alcuni riflessi condizionati che in alcuni casi sono diventati elementi identitari della nostra professione: la ricerca della polemica gratuita, l’enfatizzazione parossistica di ogni piccolo errore, l’ansia spasmodica della novità quotidiana, la notizia da rilanciare a tutti i costi al punto che, se non c’è, la si può anche inventare. Noi sempre così solerti a puntare il dito contro gli altri, a mettere in evidenza i limiti e le inadeguatezze altrui, dovremmo fare una sorta di giuramento di Ippocrate dei giornalisti, darci un codice di comportamento”.

La tragica attualità del coronavirus può essere l’occasione per cambiare identità o migliorare i difetti di una professione che in questi anni non è premiata neppure in edicola. Ma è davvero tutta colpa dei giornalisti? Nel sito della Federazione nazionale della stampa, il sociologo Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista di cultura digitale Media Duemila, mette in risalto il ruolo del web e dei social networks: “Chi è responsabile della valanga di informazioni? Tutti e nessuno. Se il governo promuove misure drastiche, il compito dei giornalisti è di riferire su di esse, ma la vera bomba emotiva inizia dal web. Internet ha una dimensione emotiva molto importante”.

“Quali sono le informazioni che vogliamo o che ci piace condividere? Sicuramente le emozioni – aggiunge – Andiamo in rete e sui social network per esprimere e condividere notizie personali, sociali, politiche, allarmi, indignazione, felicità, odio, ironia. La condivisione delle emozioni non avviene esclusivamente su Internet, ma funziona su tutti i media in modi diversi. Tuttavia, poiché è fondamentalmente relazionale, la rete stimola sempre più impulsi emotivi in configurazioni veloci e abili. I social media (tra le altre piattaforme) sviluppano le emozioni e le diffondono sulle reti”. A cominciare dal terrore incontrollato del virus.

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