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Attualità

CASA RICORDI E BIGNÉ

SERGIO REDAELLI - 06/04/2012

Pensiero musicale di Giulio Ricordi indirizzato al genio di Bellini

L’opera lirica in pasticceria. Mettete un po’ di Verdi e di Puccini, aggiungeteci la Milano di fine ‘800 tra poeti scapigliati, compositori bohèmiennes e artisti della nascente Bell’Epoque, una spruzzata di gossip d’epoca dietro le quinte della Scala, servite con qualche bigné, due pasticcini e un etto di caramelle al rosolio e, voilà, avrete un’idea della Serata Ricordi che si è tenuta di recente nel caffè-pasticceria Contrada Maggiore a Gavirate. Titolo dello spettacolo “Buonasera, signor Burgmein” con riferimento al nome d’arte di Giulio Ricordi a un secolo dalla scomparsa. Ricordi morì a Milano il 6 giugno 1912, a settantadue anni, mentre stava componendo musica: lo trovarono in camera da letto con il lume ancora acceso, lo spartito e la penna tra le mani.

I protagonisti della serata sono Mario Chiodetti, brillante giornalista e scrittore (preziosa la “Scapigliatura milanese” che curò per Zecchini Editore nel 2001), raffinato collezionista, attore per passione e tenore per vocazione; e Rosa Sarti, brava attrice fiorentina, diplomata alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano, che sa suscitare l’applauso. La sala è gremita con posti in piedi fin dietro il bancone. Soddisfatti i titolari del locale, sorride anche Romano Oldrini, organizzatore del caffè letterario Godot, animatore del Premio Chiara e inguaribile ricercatore di talenti. Lo spettacolo è avvincente. L’attrice al leggio interpreta brani tratti da lettere e articoli d’epoca, mentre Chiodetti legge, interviene e fa ascoltare al grammofono rare incisioni di Jules Burgmein (con questo pseudonimo Ricordi firmò due operette, la Secchia Rapita e il Tapis d’Orient) che restituiscono in pieno l’atmosfera fin-de-siècle.

La pièce è un’originale “lettura di teatro e musica” che racconta la vita di Giulio Ricordi da quando, diciannovenne volontario bersagliere con Cialdini, nel 1859, fissò i propri ricordi in un diario. Il generale piemontese lo aveva preso a benvolere perché amava la lirica e, di sera, lo faceva sedere al pianoforte e suonare pezzi d’opera per lui: in cambio ebbe il grado di sottotenente. Giulio era quel che si dice un caratterino: preso in giro da un soldato piemontese perché nato al di qua del Verbano, lo sfidò a duello e ne ricavò una sciabolata di striscio. A quarant’anni ereditò l’impero che il nonno Giovanni aveva fondato nel 1808, la bottega in Contrada Santa Margherita a Milano dove una volta era entrato perfino il musicista Franz Liszt, per provare un pianoforte.

Diviso tra gli affari e la musica, non sempre amato e spesso ombroso, il “sur Giuli” celava dietro la bonomia ambrosiana un carattere di ferro e un dinamismo da manager moderno. “Fu il più importante editore di musica stampata a cavallo tra i due secoli – declama Chiodetti –. Dettava legge, esercitava un forte potere economico grazie alla proprietà delle opere di Donizetti, di Rossini e di Bellini acquistate dal nonno (allora non esisteva il diritto autore). Era uno spirito esuberante e faceva di tutto: editore alla Scala, pianista e compositore, dava consigli ai tenori, dipingeva e inventava costumi di scena. Correva, gesticolava, era perennemente in movimento”.

Per lui Puccini era come un figlio. Nel 1903 Giacomo stava scrivendo la Butterfly ed ebbe un pauroso incidente di notte con l’auto guidata dallo chaffeur vicino alla villa di Torre del Lago, sul lago di Massaciuccoli, in Toscana. L’auto si ribaltò, Puccini rimase sotto e riportò per miracolo solo la frattura della tibia. Era l’ultimo sfortunato episodio di un periodo negativo, il compositore era svogliato, distratto da una squallida storia affettiva e il 31 maggio 1903 l’editore lo rimproverò, per lettera, perché non lavorava con la solerzia e l’entusiasmo che il suo talento avrebbero richiesto. È bravissima Rosa Sarti a restituire i toni, ora duri e severi, ora delicati e paterni della missiva che il “sur Giuli” scrisse quasi controvoglia al geniale e pigro pupillo.

L’altra faccia di quel mondo, in apparenza facile e scintillante, era impersonata dal musicista Alfredo Catalani, amico di Arrigo Boito e di Emilio Praga, autore de La Falce “opera minuscola ma finissima”, di Loreley ben accolta dal pubblico, di Edmea diretta dal giovane Toscanini e di Wally su libretto di Luigi Illica. Catalani aveva il difetto di non piacere a Giuseppe Verdi e siccome la parola di Verdi era il vangelo per Giulio Ricordi, le sue opere non erano rappresentate. Catalani era malato di tisi e spesso si fermava all’hotel Excelsior di Varese di ritorno da soggiorni alpini e scriveva disperate lettere agli amici. Morì a soli trentanove anni lasciando incompiuta l’ultima opera. Sul letto di morte si lamentò: “Addio la mia nuova opera. Averla tutta in testa e non poterla finire!”.

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