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Attualità

UNA SCOPERTA

FABRIZIO MARONI - 20/03/2020

restoSenza voler sminuire la tragicità dell’emergenza sanitaria ora in corso, questo momento storico è una vera e propria miniera d’oro per gli intellettuali. Tanti sono gli stimoli per analizzare, riflettere, raccontare la società e sé stessi (oltre che, finalmente, per starsene un po’ chiusi in casa a leggere e guardare film).

In una recente puntata di Piazzapulita, senza pubblico, Stefano Massini ha posto una domanda che certamente sta tenendo occupate molte menti in isolamento forzato: come cambierà il mondo? Una domanda che ovviamente può essere affrontata da molte prospettive e dalla quale si diramano infiniti percorsi di riflessione.

Massini suggerisce un interessante decalogo di cose che, passata l’emergenza, saranno diverse per tutti noi: la percezione delle diseguaglianze sociali, che sembrano annullate dal virus; il bisogno di luoghi fisici di socialità; la consapevolezza della nostra fragilità, solo per citare alcuni spunti proposti dall’attore.

Tuttavia, la prima cosa che personalmente mi ha colpito, di ciò che stiamo vivendo, non rientra nella lista di Massini: la dimensione del sacrificio. Abituati, come eravamo, a una libertà di movimento globale senza precedenti nella storia, d’improvviso ci è stato chiesto (e poi imposto) non solo di rinunciare al weekend di vacanza o alla bevuta con gli amici; la necessità ci ha chiesto di non uscire di casa.

Nell’infinità di materiale multimediale circolato nei giorni scorsi in rete, un breve messaggio recitava qualcosa come “ai nostri nonni fu chiesto di andare in guerra, a noi stanno chiedendo di restare sul divano”.

La crisi economica del 2008 impose pesanti sacrifici a milioni di famiglie; certamente, anche chi allora era solo un bambino, ebbe modo di venirne toccato e di accorgersi che qualcosa stava accadendo. Ma l’impatto di ciò che stiamo affrontando adesso è completamente diverso. La privazione della libertà, il divieto di uscire: sono concetti che per decenni non abbiamo conosciuto, inimmaginabili fino a qualche settimana fa. Probabilmente, chi non ha vissuto l’ultimo conflitto mondiale non ha mai sperimentato nulla di simile.

Il disorientamento è più forte nei giovani, cresciuti in un Occidente ricco e globalizzato, in apparenza intoccabile da guerre, pandemie o carestie. Loro più di tutti avevano perso il contatto con ciò che era il mondo fino al secolo scorso.

L’individualismo, la percezione di sé come singolo prima che come parte (di un gruppo, di una comunità, di una società) si scontra adesso con la realtà di una guerra sanitaria che per essere vinta richiede l’impegno di tutti. Un impegno, per fortuna, così semplice da mantenere.

La non-percezione di sé come membri di un insieme, il trionfo dell’individualismo e del credo thatcheriano della società che non esiste, appare ora come una debolezza. Una situazione del genere può essere affrontata e vinta solo da un gruppo unito di persone, la si chiami società o in altro modo. Forse, da questa esperienza ritroveremo la dimensione della collettività; del sacrificio fatto per il bene dei più.

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