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Opinioni

IL NOME

GIOIA GENTILE - 17/04/2020

bareLo so, abbiamo bisogno di buone notizie e di speranza nei giorni del coronavirus, ne abbiamo bisogno per tenere duro, per non farci sopraffare dallo sconforto. E quindi capisco che, ogni volta che in televisione comunicano il numero dei morti, si affrettino a dire quanto siano più numerosi i guariti. Lo capisco, ma non mi rende più serena, anzi, mi rattrista ancora di più. Ci leggo una sorta di fastidio, e la fretta di rimuovere rapidamente il fatto: diecimila i morti? undicimila i guariti. La vita ha vinto.

Ogni volta che sento questi numeri rivedo i camion militari che trasportano bare dentro cui sono state deposte salme – persone – avvolte in un lenzuolo, senza che nessuno abbia potuto dare loro l’ultimo saluto. Rivedo quelle centinaia, migliaia di cubi accatastati su altri camion, in Cina, cubi tutti uguali, custodi di ceneri soltanto. E mi ritornano in mente pestilenze di secoli passati, quando i cadaveri venivano gettati in fosse comuni sterilizzate con colate di calce. Mi chiedo se davvero l’umanità sia migliorata nel corso dei secoli.

Quel che mi rattrista, soprattutto, sono i numeri, il fatto che, nella conta delle vittime, le persone perdano il loro nome. Dei sopravvissuti si può anche non dire il nome: lo ritrovano, assieme ai propri cari e alla propria vita, una volta riemersi dall’incoscienza della malattia. Ma ognuno dei morti resterà confuso nella massa indistinta di coloro che non ce l’hanno fatta. Mi consolerebbe che di alcuni si raccontasse la storia, non la storia della loro malattia e della loro morte, ma quella della loro vita. E vorrei che fosse la vita di persone comuni, di cui nessuno abbia mai sentito parlare. Vorrei che se ne prendesse una ogni tanto, a simbolo di tutte quelle che si sono spente, e le si desse dignità universale. Manzoni, nel descrivere la peste, ha nominato – a parte i personaggi principali – solo la piccola sconosciuta Cecilia e con quell’episodio ha riscattato persino i monatti.

Mi ha sempre affascinato, nella lettura della Genesi, il fatto che le cose esistano dopo che Dio le ha “chiamate”. Il “nome” le fa esistere.

Mi chiedo anche perché, come si sente dire da più voci, alla fine di questo periodo dovremmo essere tutti più buoni, se non riusciamo, ora, a salvare la pietas. L’espressione “muoiono i vecchi”, che all’inizio del contagio veniva spesso pronunciata con un vago intento consolatorio – consolatorio per i giovani, ovviamente -, viene ora sostituita da un malinconico “se ne va una generazione”. Ci si illude di stemperare l’angoscia nel nome collettivo. In realtà se ne vanno un padre, un nonno. un marito, un cugino, un amico, un figlio. Un dottore, un infermiere.

A dire il vero, mentre scrivo queste righe, di qualcuno si è già cominciato a narrare la storia: di alcuni medici (ne sono morti più di cento), di qualche “nonno” ricoverato in casa di riposo, dei quali sembra che finora non ci si sia presa molta cura – per usare un eufemismo.

Ricordarne il nome non servirà a farli tornare in vita e non servirà più di tanto neppure a consolare i rimasti. Pietosa insania – direbbe Foscolo – che, tuttavia è la cifra del vivere civile.

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