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Società

SENZA BICICLETTA

FABRIZIO MARONI - 24/04/2020

teamsDa un paio di settimane, gli studenti di scienze politiche dell’Università degli studi di Milano, fra cui il sottoscritto, hanno ripreso le lezioni (è una delle poche facoltà dell’ateneo che suddivide l’anno in trimestri anziché semestri). Il rettore Elio Franzini, con una “lettera alla comunità universitaria”, aveva anticipato la ministra Azzolina nella scelta prudenziale di mantenere serrate le aule almeno fino a luglio. Le lezioni si sono trasferite sulla piattaforma Teams di Microsoft, che l’università ha messo gratuitamente a disposizione degli studenti (sebbene alcuni professori abbiano deciso di rinunciare a questo strumento, preferendo consegnare agli studenti dei pacchetti di registrazioni vocali, a volte senza il supporto di slides; eventuali domande si fanno per email). Allo stesso modo gli esami, scritti e orali, si svolgono comodamente seduti dal salotto o dalla cucina.

Quando anche io ho finalmente ricominciato le lezioni, dunque, ho ritrovato un’università che con orgoglio mi ha detto “noi non ci fermiamo”. Anche la ministra Azzolina ha lanciato lo stesso slogan, con tanto di hashtag: #lascuolanonsiferma. Insomma, tutti smaniano per non fermarsi in questi tempi e non perdono occasione per ribadirlo.

Ed è comprensibile, soprattutto per le imprese: più restano ferme, più ardua sarà la ripartenza. Così anche per l’istruzione, che sempre più rassomiglia a un’azienda, il primo e unico comandamento è “non fermarti”. Tradotto: “si tiri avanti, ognuno come meglio riesce”. Il problema del non-fermarsi è il rischio di lasciare indietro chi non ha la bicicletta: non gli studenti somari, ma gli studenti poveri.

Non sarà semplice per il mio compagno che non ha un computer, oppure per quello che lo deve condividere con il fratello (che ha le lezioni, gli esami di terza media ecc.) e magari pure con la mamma in smart working; sarà dura anche per quel compagno con la connessione lenta, per quello che si affidava ai prestiti bibliotecari e alle copie piratate dei costosissimi libri universitari; per quelli che studiavano grazie al lavoro in nero e adesso si ritrovano senza tutele, oltre che senza impiego. Tutto un altro discorso, poi, per gli studenti di scuole elementari, medie e superiori che già faticavano a frequentare la scuola per motivi diversi, spesso legati a realtà famigliari avverse.

Certo: nessuno in Italia (sicuramente non la scuola) è mai stato pronto ad affrontare la situazione. La Statale di Milano ha provveduto ad alzare la soglia della no tax area e ha approvato un piano generale di riduzione delle tasse universitarie. Che cosa altro potrebbero fare, il rettore e la ministra Azzolina? Come tutti, scuole e università si sono arrangiate alla buona, più o meno abbandonate a sé stesse come già erano prima. Ma della retorica sulla “scuola che non si ferma” possiamo serenamente fare a meno: non avevamo dubbi che non si sarebbe fermata. Da anni la scuola non si ferma. Non si ferma per aspettare chi è rimasto indietro, né per riflettere sulle contraddizioni di un sistema che divide, anziché unire realtà distanti; che esacerba le diseguaglianze, piuttosto che rimarginarle. Non c’era ragione perché ciò cambiasse nel pieno di un’emergenza sanitaria: il virus ha acuito le diseguaglianze, confermando l’orientamento dominante degli ultimi quindici anni, che privilegia l’efficienza, la gestione manageriale e la subordinazione al mondo del lavoro invece di puntare sull’inclusività, sulla pari dignità per ogni percorso di studio, su una scuola che sia davvero una “buona scuola”.

Un’altra conferma di quanto sia ridicola la panzana del virus che ci rende tutti uguali: non siamo mai stati così diversi. Non sappiamo ancora quando potremo tornare alle lezioni dal vivo, ma è verosimile pensare che, almeno per l’università, la didattica a distanza verrà mantenuta anche durante il primo semestre del prossimo anno. Sarebbe a dire fino a gennaio 2021. È un periodo lungo: non possiamo permetterci di trascurare gli evidenti problemi di connessione.

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