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Cultura

LUCREZIO E LA PESTE

LIVIO GHIRINGHELLI - 24/04/2020

lucrezioNel concepire la struttura del suo poema De rerum natura Lucrezio voleva far corrispondere in diretto parallelismo al preludio con l’invocazione a Venere, personificazione della voluptas e della potenza generatrice della natura e all’elogio di Epicuro, che sfida vittoriosamente il mostro gigantesco della religio, la trattazione serena e luminosa delle sedi beate degli dei, promessa formulata nel libro quinto, peraltro non mantenuta. L’opera aperta nel nome della grande dispensatrice di vita si chiude invece con un desolante quadro di morte, la peste d’Atene.

 Lucrezio trasferisce sul piano emotivo e psicologico l’obiettiva sintomatologia del notissimo brano di Tucidide, posto alla base della rappresentazione, il disperato abbrutimento degli uomini di fronte al progredire di un morbo incurabile, la degradazione, la morte orribile, gli affrettati funerali, la mancanza di assistenza, l’ammucchiarsi di cadaveri insepolti, metafora di un disordine psichico, morale, sociale. La diagnosi del male mette in ombra l’efficacia della terapia.

L’epicureismo che in quanto conoscenza della natura materiale del mondo dovrebbe garantire all’uomo la sua serenità, liberandolo dalla superstizione, rendendolo insensibile alle minacce di terrificanti pene eterne, grazie all’assoluto annientamento post mortem, la necessità di speculazione scientifica si convertono nel poeta in pessimismo e angoscia.

Lo stupore ammirato di fronte all’indifferente maestà delle leggi naturali, all’eterno conflitto degli elementi, l’eroica accettazione di ogni cosa in quanto esistente (Lucrezio cerca di spiegare la realtà, non di giustificarla), cedono a un’inquietudine profonda del carattere e alla temperie particolare della contingenza storica. Nella Roma del suo tempo sono evidenti i segnali di crisi: sorgere di bisogni innaturali, brama insaziabile di nuovi piaceri, società ricca e affluente, che crea artificiosamente il bisogno di consumi lussuosi e raffinati, ricerca frenetica di una impassibile evasione nei molteplici piaceri a disposizione, ambizioni e cupidigie personali sfrenate, pur nella constatazione di un uniforme destino di morte, il non sapersi ritirare dal banchetto come convitati ormai sazi. E nella crisi etico-politica di allora una fioritura di superstizioni d’ogni genere. Il timore della morte è radicato nei recessi più profondi dell’anima. Dallo stesso processo di civilizzazione è esclusa per Lucrezio ogni teleologia immanente.

Il saggio epicureo, nella roccaforte della dottrina, dovrebbe guardare dall’alto l’insensato affaccendarsi della moltitudine, privilegiando l’immagine quasi idillica della vita secondo natura, i piaceri moderati, l’amicizia. Non nella difesa del progresso tecnico e civile, ma solo nell’accettazione imperturbata delle leggi naturali si può trovare ristoro alle calamità che ci affliggono, alla natura matrigna.

Nel gioco tragico l’uomo si configura come pedina insignificante, destinata ad essere stritolata. Ed ecco il dilagare della peste (libro sesto, vv. 1138-1286). “Questo tipo di morte e flusso mortifero un tempo nella terra di Cecrope (Atene) rese i campi luttuosi, desolò le strade, svuotò la città d’abitanti… e allora erano abbandonati a morbo e morte, a caterve. Ai mali intollerabili era costante compagna inquietudine angosciosa e lamento frammisto a pianto. Balbettava la medicina, zittita dalla paura. Passavano l’uno dietro l’altro funerali squallidi, vuoti di gente. In nessun istante smettevano di comunicarsi l’uno con l’altro il contagio dell’avido morbo. Tutti quelli che evitavano di visitare i parenti malati perché erano troppo avidi di vivere, paurosi di morte, poco dopo li puniva – con morbo infame e crudele – abbandonati da tutti, senza un aiuto, la mancanza di cure.

D’altra parte quelli che erano stati altruisti, se ne andavano per contagio e fatica. Crollo dei punti di riferimento: religione, civiltà. Tutti i luoghi sacri agli dei aveva riempito la morte di corpi senza vita e ovunque i templi dei numi celesti rimanevano tutti carichi di cadaveri; i custodi avevano affollato questi posti di ospiti; non restava nella città il rito di sepoltura che prima quel popolo aveva per tradizione seguito nei funerali; era sconvolto tutto nel terrore”.

Odio e orrore si insinuano nello stesso gesto supremo della pietas. A parte le diversità nello spettacolo, quante coincidenze! Ancor oggi non ci arrendiamo al linguaggio e ai valori della scienza, pretendendo invece spiegazioni e anticipazioni taumaturgiche. Epperò tanti si presentano i casi di persone e professionisti dotati di profondo senso di umanità, che profondono energie a volte non supposte e si dedicano solidalmente al prossimo rischiando la vita in nome di alti valori religiosi o di una laicità generosa, frutto di razionale compostezza e fede nella scienza.

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