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Stili di Vita

REPORT EMOZIONALE

VALERIO CRUGNOLA - 08/05/2020

Bergamo: camion militari per portare altrove le troppe bare

Bergamo: camion militari per portare altrove le troppe bare

Gli enormi progressi nella tecnica compiuti nell’ultimo secolo sono spesso sfuggiti alla mano dell’uomo. Ora si tratta di progredire nella sua umanizzazione e nella sua regolazione. Questo criterio vale anche per i sistemi di cura dei malati, tecnologicamente evoluti e sistemici ma vulnerabili, fragili e troppo impersonali.

Il prodigarsi di medici e infermieri nell’emergenza è stato notevole, ma la comunicazione con i pazienti, specie se in rianimazione, è diventata problematica, e impossibile per chi avrebbe voluto star loro vicino. Tornano di attualità le riflessioni sul congedo tra chi sta per terminare il ciclo vitale e chi gli sopravvivrà, e sulle difficoltà che si frappongono a un’assistenza intesa come relazione trilaterale tra medico, paziente e persone vicine al malato. Sono in gioco aspetti cruciali dell’etica terapeutica e frontiere relativamente nuove circa i mutui diritti e doveri di tutti i soggetti coinvolti, incluso il personale paramedico, amministrativo e gli addetti al cosiddetto front office.

In questi giorni ancora difficili a tutti è capitato di pensare alla solitudine dei morenti, di commuoversi davanti all’angoscia di chi non ha potuto salutare un’ultima volta la persona cara – un amore, un familiare, una figura amica –, e ha dovuto affidarsi per intero alla tecnicizzazione estrema della malattia e ai professionisti della sepoltura o della cremazione dei defunti. Una doppia privazione – quella della persona scomparsa e quella della cura e del conforto a lei dovuti – ha accentuato lo strazio, sovraccaricato ulteriormente il peso del lutto, lasciato un margine di inespresso, di non detto e non più dicibile, fosse soltanto una parola di affetto, di stima e di gratitudine pronunciata in extremis. Questo è però un tema già noto, cui è difficile aggiungere qualcosa di nuovo.

Altrettanto noto è il vuoto lasciato dall’assenza dei riti di congedo, dal funerale religioso alle cerimonie laiche, sempre più diffuse perché meno distanti, meno verbalistiche e meno liturgiche e destinate esclusivamente alla condivisione del ricordo e del lutto. La pandemia ha reso inevitabile questa privazione; ma non dobbiamo dimenticare che ha generato nei sopravvissuti un ulteriore gravame di strazio e di gesti e parole di prossimità non sufficientemente condivise.

La vulnerabilità delle istituzioni sanitarie, gli alti rischi a cui è stato esposto il personale medico e infermieristico, la sciatteria emersa in numerose case di riposo per anziani hanno creato ulteriori sofferenze.

Da questo insieme di dolori si ricavano utili insegnamenti per immaginare il futuro sia in termini negativi (ciò che non vogliamo), sia come auspici o indirizzi da prendere. La fase 2 è il momento giusto per fare tesoro delle criticità. I processi di apprendimento nascono quando si è costretti ad uscire dalla routine e a fare esperienze con cautela, anche per controllare e rendere reversibili gli errori.

Come cittadini dobbiamo pretendere un miglioramento tanto nei presidi pubblici sul territorio (i consorzi di medicina di base, la qualità e la tempestività delle visite specialistiche e delle analisi, i servizi di pronto soccorso e le forniture di emergenza) quanto nelle strutture ospedaliere, generali e specialistiche. Una politica riformatrice debitamente finanziata farebbe spazio a rapporti più attenti tra le istituzioni sanitarie, con chi volta a volta le rappresenta, i pazienti (specie se morenti) e le persone prossime ai malati. Negli ultimi due decenni qualcosa si è fatto per migliorare il rapporto bilaterale tra medico/infermiere e malato, per umanizzare i trattamenti clinici e per instaurare un rapporto interpersonale, giocoforza debole come investimento affettivo diretto ma in cambio sollecito, generoso di sé, sincero, leale e persino “pedagogico” nei riguardi del paziente. Questo rapporto interpersonale va potenziato per il futuro, per contrastare da un lato l’asettico anonimato delle relazioni e dall’altro il pessimo vizio della medicina fai-da-te, dove l’autorità scientifica è messa in forse, le élites sono disprezzate, le fakenews la fanno da padrone e il malato ha già stabilito con una navigatina nel web anamnesi, diagnosi, prognosi, analisi e protocolli terapeutici e pretende di ridurre il medico curante allo stato di compilatore di prescrizioni.

Non altrettanto si è fatto per migliorare i rapporti con gli altri poli al di fuori del rapporto tra terapeuti e pazienti: i membri del personale sanitario esterni ai reparti e i soggetti che, non importa a che titolo giuridico, hanno sinceri legami affettivi con il paziente. Le tecnologie della comunicazione, se opportunamente predisposte, possono fare molto, specie nel rendere accessibili dei brevi report clinici tramite password. Attraverso servizi intermedi dedicati, lo staff terapeutico e le persone più vicine al paziente possono scambiare informazioni non asettiche e non burocratiche circa il malato, senza che i medici debbano accrescere i carichi di lavoro per le loro rendicontazioni, già gravosi ma insostenibili se il sistema entra in uno stato di stress.

Va migliorata ulteriormente la formazione del personale medico, infermieristico, amministrativo e comunicativo. Non si tratta di sottoporre dei malcapitati a chiacchiere inutili (come è ad esempio nelle scuole), sprecando tempo e risorse, bensì di accrescere, nei percorsi di studio, le esperienze dirette e il tirocinio sul campo anche nella relazione con i pazienti e con soggetti terzi. I compiti più innovativi riguardano gli addetti ai rapporti con il pubblico: uno snodo delicato, come un menisco per il ginocchio.

In situazioni non di emergenza, due passi ulteriori verso l’umanizzazione sono gli orari di visita più facili ed estesi e una migliore qualità dei tempi di degenza (spesso inoccupati e dominati dal potere rincoglionente di trasmissioni tv alquanto trash).

Dovremmo estendere la possibilità di erogare, in ogni circostanza consentita e in condizioni di sicurezza, cure a domicilio. Avremmo un rapporto più vicino al malato, più agevole e meno straniante, meno gigantismo e minori oneri organizzativi, burocratici, logistici e finanziari. In un territorio circoscritto un sistema cooperativo tra medici di base, infermieri, volontari e servizi di catering potrebbe far fronte ogni giorno a una decina di pazienti, con il supporto esterno di laboratori e di medici specialistici on demand.

Possiamo provare fin dove si può a deospedalizzare i servizi sanitari? Se sgravassimo l’assistenza ospedaliera liberandola dalla routine, potremmo migliorare quella che non possiamo decentrare. Le tecnologie ci aiuteranno. È il momento per pensarci.

Infine, il potenziamento della medicina ad personam con servizi diffusi sul territorio va esteso all’assistenza agli anziani: fino a quando possono bastare il badantato e la frequente sorveglianza medica, le case di riposo (troppo onerose e non sempre affidabili) possono non essere una scelta obbligata, e dovrebbero trasformarsi da parcheggi di vecchi in attesa di smaltimento in reparti di geriatria decentrati. Vivere nella propria casa fino a quando è possibile e la prossimità dei familiari e degli amici sono un conforto per l’anziano. Si tratterebbe di rendere sostenibile questa rete di assistenza medica e sociale alla persona, sia per le famiglie e il diretto interessato, sia per gli enti pubblici.

Non sta a me dire come far convergere virtuosamente le sempre troppo poche risorse finanziarie, i nuovi compiti istituzionali sul territorio, le fondazioni di interesse pubblico, le famiglie con il loro ruolo, il volontariato organizzato e le professionalità di supporto. Come ovunque, dobbiamo sperimentare varie soluzioni e selezionare le più efficaci.

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