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Attualità

COMUNITARISMO

EDOARDO ZIN - 15/05/2020

eucarestiaMi piace la mattina svegliarmi, di buon’ora, schiudere le imposte, lasciare aperte le finestre e godere la brezza fresca del mattino, udire i merli che fischiano, il cuculo che è ritornato nel vicino bosco, le tortore che tubano. Amo il silenzio che in questi giorni di forzata relegazione non sarà interrotto dalle vetture che passano e rintronano, dai motorini degli studenti che sfrecciano o dal vociare allegro degli scolari. È una dolce sensazione che dura poco perché il pensiero va alle famiglie pressate nelle case magari anguste con i bimbi che strepitano.

È diverso il silenzio assordante della città deserta. Nella città il silenzio diventa solitudine: il silenzio è mancanza di parola, talvolta mutismo, mentre la solitudine è mancanza di incontri, di relazioni e talvolta degenera in misantropia.

Credo che due immagini mi rimarranno impresse nel cuore a ricordarmi questa percezione: quella degli autocarri militari che, in lunga teoria trasportavano le bare di ignoti cittadini, morti soli, privati del conforto di una carezza nel momento estremo della vita e quella di papa Francesco che si rivolge alla piazza San Pietro deserta in una serata muta e piovosa. Entrambe rappresentano la solitudine dell’uomo moderno e la sua fragilità che lo spingono a credere che Dio sia sordo alle sue invocazioni.

Ritroveremo il vero senso del silenzio, che è riflessione e ascolto interiore, e quello dell’autentica relazione con gli altri, che diventa comunione, da lunedì prossimo quando potremo partecipare all’Eucarestia celebrata nelle nostre chiese.

Non mi sono piaciute le diatribe di questi giorni tra coloro, molti agnostici, altri più praticanti che credenti, che esigevano – come se l’Eucarestia fosse un diritto e non un dono – la celebrazione comunitaria della Messa e chi appagava il desiderio d’incontrare Dio assistendo all’Eucarestia per televisione o ritirandosi a pregare o a leggere la Parola nel silenzio della sua camera o di una chiesa.

Mi sono sovvenuto di una pagina del Deuteronomio. Il popolo eletto è messo a prova: attraversare il deserto, che non è una punizione di Dio, per giungere alla terra promessa. Durante la traversata del deserto, il popolo ha fame e Dio manda il dono della manna. Ciò che appare negativo diventa occasione per scoprire il senso della vita di un popolo e la scoperta di Dio. Stiamo attraversando anche noi il deserto, siamo tentati dalla rassegnazione, dal languore, dalla paura. L’inedia, che è ripulsiva per il corpo può diventare mirabile opportunità per il “cuore”, che nel suo significato biblico è la sede della vita interiore.

Nel deserto della pandemia si cammina, si assume la storia di tutti, anche quella della solitudine e del silenzio, ma l’uomo ha anche fame dell’Invisibile, di un nutrimento per il suo spirito. Anche la disgrazia della pandemia può diventare occasione di Grazia; nella disperazione, speranza.

Dopo la forzata sospensione, la ripresa della celebrazione dell’Eucarestia (specialmente quella domenicale!) può diventare un’occasione per rinnovare lo spirito della nostra partecipazione: inserire di più in essa la vita di ogni giorno, renderla espressione di una comunità viva, significativa anche per chi non crede. Renderla più umana perché in una società secolarizzata come la nostra non è la legislazione civile, ma solo la fede di una comunità che confessa Dio nella storia.

La Messa non è qualcosa d’alienante che estranea il fedele dal mondo. La Messa si nutre di comunità, non di isolamento, di solitudine, ma di presenze. E assieme esige il silenzio intimo, denso di parole perché pregare è Dio stesso che prega e noi lo ascoltiamo. La Messa non uccide la sensibilità, l’emotività, le passioni, il timore, il dolore, il rimorso, ma è impastata col mondo. Quando entro in Chiesa, la domenica, con la gente che mi vive accanto, vorrei non lasciare fuori dalla porta la vita con la sua varietà, la sua densità, la sua ricchezza. Porto con me le mie gioie, le mie sofferenze, le attese di un mondo affamato di carità, di giustizia, di amicizia. Ecco perché attendo che la Parola sia “lampada per i passi” che devo compiere assieme alle altre presenze degli uomini di fede i quali sono la presenza si Dio. Non voglio fare del panteismo. So bene che Dio è trascendente, ma è anche un Altro che ciascuno porta dentro.

E vorrei sentirmi parte di una comunità che assieme ascolta, prega, offre, riceve, compie gli stessi gesti. Di comunità si parla molto, forse troppo, ma la si pratica poco. L’Eucarestia è sempre comunitaria. Ho solo qualche riserva nei confronti di certa euforia che circonda i circoli chiusi formati da persone alla ricerca di appoggi psicologici, in cui si respira un clima di ghetto e il suo spirito è quello di un gruppo chiuso, di una barriera protettiva contro la comunità più ampia. Come pure non amo le messe esasperatamente sacralizzate, ratificate da regolamentazioni rubricistiche il cui linguaggio è lontano, quasi indecifrabile dall’uomo d’oggi e in cui si adora un Dio “straniero”. Meno ancora quelle sciatte, brevi, frettolose perché il celebrante deve correre in un’altra chiesa.

È questo falso comunitarismo che fa credere che, se non si riceve l’Eucarestia ogni giorno, non si può vivere. La fede, oltre ad essere attesa, è anche riconoscerci in debito con Dio e non cercare di essere sempre in pareggio con Lui.

Sia Grazia, dunque, la Messa che ritorna ad essere celebrata nelle nostre chiese anche se il sacerdote non ci imboccherà con il Pane spezzato sulla mensa comune, ma ce lo allungherà nelle nostre mani tese a chiederne un tozzo proprio come il mendicante le tende per ricevere l’elemosina. Sia Grazia l’attenuarsi del confinamento purchè esso non diventi isolamento, solitudine, ma comunione, anche se costretti al distanziamento. Sia Grazia il silenzio che calerà in chiesa dopo aver ascoltato la Parola e ricevuto l’Eucarestia e sia un momento non vuoto, il nulla, ma voce di Dio che parla. Sia Grazia se non dovremo scambiarci il gesto abitudinario dello scambio della pace: venga sostituto dalla frugalità, dalla mancanza si pretese, da un sorriso. Sia Grazia se la Messa non ci allontanerà dalle forme di vita quotidiana. Sia Grazia se la Messa che riprenderemo non sarà intercalata da introduzioni, spiegazioni, commenti e didascalie. Sia Grazia se la preghiera dei fedeli nascerà spontanea dalla comunità riunita e non sarà dettata da formulari già preparati.

Mentre l’epidemia sembra stia scemando, i credenti torneranno a riunirsi per l’Eucarestia: “Essa non è un premio per chi è particolarmente virtuoso, ma è il pane dei viandanti che Dio ci porge in questo mondo, che ci porge nella nostra debolezza”. (Joseph Ratzinger)

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