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Noterelle

PRESI DAL “COCICOCI”

EMILIO CORBETTA - 29/05/2020

divanoLa sindrome della capanna è una patologia psicologica che colpisce i soggetti dopo un periodo di solitudine nella propria casa: si trovano in difficoltà ad uscire con desiderio di restare rifugiati tra le mura domestiche. La tua casa ti coccola, lì ti senti più protetto.

Avrebbero potuto chiamarla la sindrome della caverna, ma la caverna gli avi dei nostri avi non la creavano loro, la trovavano e dal suo buio potevano scaturire con frequenza minacce, mentre la capanna era fatta dalle loro mani e presso tutti i popoli la capanna ha un significato simbolico di grande valore. Gli ebrei, ad esempio, hanno la festa delle capanne che dura parecchi giorni e che viene celebrata con preghiere e riti particolari per ogni giorno. Mi sembra più significativo, più poetico chiamarla appunto così: sindrome della capanna.

I sintomi di questa sindrome si intrecciano dentro di noi. Il più importante è la letargia caratterizzata da sensazione di stanchezza, difficoltà a muovere gli arti che ci sembrano intorpiditi, belle dormite anche di giorno, un restare a lungo “cocicoci” tra le lenzuola. Cosa vuol dire questo termine? Nei vocabolari non c’è: forse è un’espressione dialettale delle nostre zone, che significa stare ben accoccolati tra le lenzuola. Ma allora è patologia o un desiderio di benessere? Un benessere da pigroni? Essere pigroni non è ritenuta cosa bella in generale, ma qualcuno la considera cosa positiva perché nell’ozio i pensieri vanno e creano. Giusto, ma in questa sindrome qualcuno aggiunge un sintomo antipatico: difficoltà cognitive…. e qui si cade nettamente nel patologico, che potrebbe essere però legato ad altre cause già presenti in precedenza; se però insorge dopo la “clausura” è evidente la concomitanza.

È sconcertante considerare in quanti ambiti agisca questo Covid-19 che, oltre alla sua specifica patologia, lascia pesanti conseguenze sia a livello fisico con gravi danni a polmone, cuore ed altri organi, sia a livello psicologico. Nell’insieme nasce la necessità di un grande richiamo alla nostra forza di volontà che ci deve stimolare a reagire con forza e buon senso (quest’ultimo molto importante) alla situazione. Anche se coinvolgente e con un nome simpatico, dobbiamo dunque avere la forza di scrollarci di dosso questa sindrome e rimboccarci le maniche – detto popolare molto significativo.

Tutti dicevano che non si tornerà come prima,ma non so se tutti hanno compreso questoconcetto, specialmente gli economisti e molti politici che non dovranno riprendere i consueti modi di lavoro, ma dovranno saper escogitare nuove regole e nuove metodologie, come per esempio rivalutare le risorse umane e utilizzarle in un modo nuovo, non punitivo nei loro confronti massacrandole, come successo finora, oltre ad altro anche mediante le nuove tecnologie: il robot non deve sostituire l’uomo ma raffinare il lavoro dello stesso perché il robot, per quanto perfetto, non può avere la carica d’amore e di passione che l’uomo può dare e donare. Sarà importante e decisiva per noi la capacità di valutare e realizzare queste qualità: amore, donazione, passione nel fare.

Mi sconcertano anche gli psicologi con la loro capacità di dar nomi importanti e coinvolgenti a difetti già presenti in noi da sempre: al proposito un mio zio definiva gli amanti delle capanne “quei lì in lazarun” se non addirittura “pelandrun”, con la micidiale logica dei semplici che avevano bruciato la loro vita nel duro lavoro. Agendo così i “capannofili” passano dalle coccole descritte prima a quelle dei lettini di cura degli psicologi e questi sapranno dar loro la spinta per reagire ai comportamenti stigmatizzati dal mio parente?

Ripartire in modo nuovo chiede molto coraggio, forza, fantasia imprenditoriale, ossia molta intelligenza. In un servizio televisivo è stato intervistato un pizzaiolo che ha inventato un nuovo modo per fare pasta lievitata che dà nuovi sapori alle sue specialità. Sono stati poi intervistati alti funzionari di banche che invece ripetono vecchi concetti pre Covid-19.

A tal proposito ricordo invece un altro mio vecchio parente molto dinamico ed efficiente che, appena finita la seconda guerra mondiale, fu chiamato dal direttore di una delle nostre famose Banche provinciali il quale gli chiese perché, con le sue capacità, non si staccava dalla ditta di cui era dipendente per “andare da solo”. Alla risposta che gli mancavano i fondi, il direttore gli disse: “Glieli faccio avere io”. Tempi diversi? Forse, ma rapporti umani più profondi. È evidente che quel direttore non passava ore dietro la scrivania ma sapeva scavalcarla, cercando di studiare le qualità di futuri clienti capaci di dare forza a sé stessi ma anche alla banca.Oggi anche nelle banche impera il robot, a scapito dell’amore e della passione dei semplici dipendenti. E questa è l’economia solo in funzione del profitto e non al servizio dell’uomo: vecchia crudele realtà. Come sarebbe bello tornare come prima!

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