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Stili di Vita

DANZA UTILITARISTICA

VALERIO CRUGNOLA - 29/05/2020

societaI conflitti per il riconoscimento, il diffondersi della tolleranza, l’estendersi delle relazioni oltre un territorio ristretto e la crescita delle risorse hanno lentamente consentito al principio di convivenza tra plurali di compenetrare le mentalità di gruppi ampi, non più limitati alle élites colte.

Parlo di pluralità per la vastità e la non pericolosità dei suoi significati. La pluralità riguarda le idee, i comportamenti, le esperienze vissute, le educazioni ricevute, le scelte di ogni giorno e quanto ancora, rinnovandoci, ci rende singolarità uniche e irripetibili. Ogni uno è quel sovrappiù che esonda dalle categorie a cui viene ascritto e che lo chiudono in un registro contabile: passaporto, età, sesso, titolo di studio, lavoro, ruolo, fascia di reddito… La singolarità non si risolve nella sommatoria delle categorie a cui il linguaggio ci incatena, negli etichettamenti che cementificano gli schemi correnti di pensiero.

Il nostro ordinamento costituzionale pensa ai singoli anche quando parla di universalità. I “tutti” non sono un aggregato astratto e immobile, ma un insieme di caratteri comuni che rendono possibile i processi di individuazione e il divenire aperto delle individualità. La singolarità non ripudia l’uguaglianza, anzi la pretende: come diritti, opportunità, doveri. Ma l’uguaglianza non è mai un noi. Un lessico filosoficamente rigoroso ammette solo due pronomi: io, tu.

Liberismo e collettivismo sono estremismi negativi: singolarità senza uguaglianza il primo, uguaglianza senza singolarità il secondo. Altri termini, più accattivanti, negano il binomio singolarità-uguaglianza: il gergo è infestato di buone intenzioni, ma genera fraintendimenti pericolosi. Se ogni uno è un’individualità riflessiva, capace di scegliere, cambiare, correggere, sostituire, contraddire, scomporre, ricomporre e tradire i principi regolativi, i moventi e gli schemi che ne orientano (o orientano diversamente) l’esistenza, l’uguaglianza può essere intesa solo in chiave universalistica e cosmopolitica: due concetti pieni, non vuoti come taluno paventa. Siamo noi a segnare i limiti della nostra appartenenza e della nostra non appartenenza. Già fatichiamo ad appartenere a noi stessi, figuriamoci se ha senso appartenere a una qualche identità, sia essa una nazione, una cultura, una tradizione, un’ideologia, una religione. Possiamo apprendere ad appartenerci solo in relazione con chi condivide con noi la comune fatica e i cambiamenti di rotta.

L’eguaglianza include il diritto a un grado accettabile di equità sociale: la condizione che offre a ogni vita un grado accettabilmente dispari e abbondantemente pari di opportunità e consente a ciascuno, fin dove può e gli è consentito, di prendere in mano il proprio destino. L’eguaglianza massimizza la singolarità. Politica, istituzioni giuridiche, attività produttive e pratiche di convivenza si ritmano – dovrebbero ritmarsi – sui medesimi passi di ballo: i passi di un saggio utilitarismo, che persegue il maggior bene per il maggior numero possibile di individui. In questa danza di figura ogni coppia volteggia per sé ma in sincronia con i volteggi di altre coppie. Se il bene di pochi ostacola il bene di molti, politica, leggi, produzione e pratiche di convivenza hanno il dovere di contrastare l’iniquo esubero. Se il bene dei molti esclude i pochi da ogni bene, anche i molti devono regolare i conti con l’equità per tutti. So che molti bigotti si scandalizzano solo a sentir parlare di utilitarismo: ignari del pensiero filosofico, bollano l’individuazione come egoismo e spingono l’utile nella sfera extramorale. È vero il contrario. L’utile è un principio morale, che valorizza l’uguaglianza (inclusa una corposa equità sociale) come strumento per raggiungere il fine dell’individuazione. La morale utilitarista pretende inclusione, coesione ed equità diffusa senza mai trascendere il singolo. Siamo dei sarti chiamati a cucirci un abito su misura, con la foggia che più ci piace o che meglio si adatta a circostanze o inclinazioni.

Tra i termini infestanti annovero soprattutto nazione, etnia, identità, alterità, cultura, comunità, valori, e gli abusati bene comune e popolo, fuffa per politici scadenti che non sanno cosa dire. Questo gergo in uso ostacola una visione dinamica e mutevole della vita, è afflitto da una sorta di naturalismo aristotelico e rinvia a essenze metaindividuali senza le quali avremmo assenza e privazione. Secondo questa gergalità, gli enti singolari o partecipano di queste essenze o non sono.

Quando poi parliamo di stranieri, siano essi ospiti o estranei, comunque l’Altro, dovremmo anzitutto ricorrere a sani disinfestanti (ecobio, però, mi raccomando!). Le parole più scivolose sono proprio plurinazionale, multietnico, multiculturale, interculturale, perché – come detto – negano tanto la singolarità quanto l’universalità, ingessando il noi, il voi e il tutti in un fissismo che non ammette interscambi coevolutivi tra individui. Possiamo essere inter-singolari, ma non inter-collettivi, se non – forse – nelle rappresentanze istituzionali legittime.

Le appartenenze identitarie ostacolano sia il diritto di scelta che compete a ogni singolo sia l’universalismo, perché accondiscendono a disuguaglianze altrimenti inaccettabili, come la discriminazione e la subordinazione patriarcale delle donne. Al contrario, tutto quello che consente processi coevolutivi rispetta i due assi che normano la nostra vita a partire dai diritti costituzionali. Si tratta di stabilire se i diritti dell’uomo sono un fattore culturale che, in nome di un presunto Rispetto dell’Altro, dobbiamo talvolta accantonare, o se sono il segno di una superiorità occidentale, o se invece, come credo, equivalgono a scoperte nate in un contesto storico dato, ma che come beni e come tecnologie (le leggi, in primis), appartengono a tutti come la biologia molecolare, la fisica quantistica e le tecnologie digitali. Cosa resta di arabo nei numeri arabi? E cosa di italiano nelle note musicali? Nulla, ovviamente: sono beni liberamente disponibili da secoli.

La società multiculturale, la ghettizzante visione del mondo giustamente contrastata da Habermas, fatta di tante rette parallele che tirano dritte per la loro strada, non può né deve esistere. Solo le lingue fanno la differenza. Il linguaggio è l’unico manifestarsi della cultura. Ma anche la lingua è un retaggio che si può cambiare, sintetizzare, acquisire, abbandonare. Il mondo accelera verso il plurilinguismo. Una quota consistente del pianeta, la più mobile e acculturata (un’élite aperta, non una setta privilegiata), parla due o più lingue e intanto adotta ulteriori registri comunicativi condivisi. La madre biologica è sempre certa, la lingua madre non più. È, al massimo, la lingua in cui pensiamo e ci parliamo in solitudine. Il multietnicismo e il multiculturalismo pesano più di una bestemmia. La famiglia di Martin Luther King parlava inglese da tre secoli, ma veniva definito un afroamericano. Si batteva per dei diritti liberali. Se i diritti fossero un prodotto culturale “americano” o “occidentale”, chi è più americano: King o Nixon? Obama o Trump? Le lingue possono essere anche un carcere: se raggiungono una massa critica autosufficiente, costruiscono fortilizi dove dovrebbero esserci campi aperti, favoriscono la ghettizzazione volontaria, l’endogamia, i vincoli parentali, l’amicalità tra connazionali. Ne parleremo la prossima volta.

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