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Parole

TRE COSE

MARGHERITA GIROMINI - 05/06/2020

Elliott Erwitt, Parigi, 1989

Elliott Erwitt, Parigi, 1989

Avrei potuto approfittare del lockdown – lo hanno consigliato i tuttologi – per ripensare alla mia vita. Temo di non averlo fatto.

Forse ho sprecato quei due mesi.

Mi aveva fatto sorridere un post ricevuto per WhatsApp in cui Snoopy afferma: “Vendesi mezzo anno – usato pochissimo”. Post che ho condiviso con i compagni di lockdown: uno di loro risponde subito con una fila di faccine scandalizzate e la scritta “Daiiiii!”

In effetti, il carattere depressivo del post è inequivocabile.

Ci sarebbe stato un tempo da svendere perché “poco usato”. Un tempo perduto perché non vissuto appieno, non pensato, lasciato passare via mentre lontano dai nostri occhi si svolgevano tante vite, la vita.

Alla riapertura dei primi di maggio mi sono concessa un’uscita in un parco cittadino.

La sorpresa è stata che, mentre io non c’ero, in quel luogo tante cose erano accadute sebbene io non ci fossi stata né avessi immaginato di esserci.

Lontano dal mio sguardo erbe, fiori, cespugli e alberi hanno continuato a crescere, albe e tramonti si sono alternati senza interruzione.

I disegni delle aiuole erano meno ordinati perché avevano risposto alle esigenze della natura invece che alle nostre. La villa all’interno del parco rifulgeva di una luce speciale che illuminava le cose per offrirle a noi, a me, ai primi visitatori.

Avevamo letto che la natura si era mossa indisturbata e si era ripresa alcuni spazi che nel tempo le erano stati sottratti. Quelle parole però io le sentivo retoriche e inopportune, le avvertivo confliggere con la dura realtà della pandemia, le rifiutavo come foriere di disagio anziché di consolazione.

Nel periodo del distacco dagli affetti e dal quotidiano, il mondo fuori dalle mura di casa si presentava come una realtà immobile e respingente.

Nel lockdown mi era quasi impossibile ascoltare il mondo, tantomeno accogliere gli effetti di una primavera in pieno compimento.

La prima uscita mi ha stupita mostrandomi un mondo diverso da prima: eppure due mesi sono un tempo breve, che talvolta scorre senza che ce ne accorgiamo.

Riconosco che è stata la paura a paralizzare il mio sguardo sulle cose, che pure continuavano ad esistere e a richiedere un riscontro.

E’ prevalsa la paura del presente, del male che poteva accadere, del tempo che si stava fermando, dell’assenza di futuro.

In quei due mesi siamo stati messi alla prova, è vero.

Ma chissà se abbiamo capito che sarebbe bene riservare sempre uno spazio all’inatteso che può sconvolgerci e travolgerci in qualunque momento.

Mi conforta così l’ultranovantenne Edgar Morin, filosofo, pedagogista, filosofo, lucido interprete del nostro tempo: “L’atteso non si realizza, all’inatteso un dio apre la strada”. Perché capita nelle nostre vite, e spesso anche nella Storia, che ciò che abbiamo atteso non si sia potuto realizzare.

I due mesi del lockdown non saranno perduti se saremo riusciti a scoprire anche solo una piccola parte del “non ancora visto”.

Sta scritto in questa poesia attribuita al brasiliano Fernando Sabino che

Di tutto restano tre cose:
la certezza che stiamo sempre iniziando,
la certezza che abbiamo bisogno di continuare,
la certezza che saremo interrotti prima di finire.
Pertanto, dobbiamo fare:
dell’interruzione, un nuovo cammino,
della caduta, un passo di danza,
della paura, una scala,
del sogno, un ponte,
del bisogno, un incontro.

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