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Gente comune

UN PARROCO, I MARXISTI

DEDO ROSSI - 01/07/2020

don Guglielmetti con Claudio Cocquio del gruppo giovanile Santabarbara

don Guglielmetti con Claudio Cocquio del gruppo giovanile Santabarbara

Don Guglielmetti, il parroco di Biumo, aveva il suo carattere. Sapeva essere aspro. E lo era con la stessa intensa passione con cui sapeva essere vicino  ai dolori della gente. Viveva in un mondo che stava cambiando e questo cambiamento gli dava dolore. A lui, nato al Palazzo Reale di Milano, figlio di un alto ufficiale di carriera, ogni cambiamento risultava incomprensibile. O meglio ingiusto.

Arrivato a Biumo il 22 gennaio 1949,  considerava  Belforte un territorio aggregato, come un insieme di case che non era mai diventato un paese.  Altra chiesa, il Lazzaretto.  Altra gente, i comunisti. E questa gente senza patria e senza Dio erano per lui una spina nel fianco. Dal pulpito ripeteva:  “gli atei, i marxisti e i massoni che sono cresciuti tra le nostre case”. Quando li nominava anche il tono della voce cambiava. Si riempiva di sgomento e di passione. Per  anni, da bambino, mi sono chiesto chi fossero. Per gli atei e i marxisti avevo trovato una spiegazione: “ Erano quelli del Circolo”. Ma sono stati  i massoni a crearmi problemi. Nessuno mi aveva dato una spiegazione convincente. Chi diavolo erano, a Belforte,  i massoni?  Sono diventato grande con questo quesito irrisolto, guardandomi intorno con sospetto.

Una  spina nel fianco, i marxisti  lo erano  stati anche per i predecessori di don Guglielmetti.  Nel Liber Chronicus, al termine  della prima guerra, troviamo scritto: “ Si delinea un raffreddamento nelle pratiche religiose desolante, principalmente ad opera della propaganda socialista(…)  Dappertutto avviene il medesimo abbandono delle pratiche della fede cristiana. Effetto anche della lettura di giornali cattivi. Il giornale socialista Avanti è nelle mani di tutti. Al mattino gli operai lo hanno tra le mani prima di entrare nelle fabbriche e assorbono anziché il caffè, il veleno della loro vita spirituale”.

Don Guglielmetti conservava la stessa comprensibile angoscia e rispondeva a modo suo. Autoritario e intollerante verso i suoi coadiutori, sospettoso verso noi giovani che ci affacciavamo alle domande degli anni sessanta, aveva guardato al Concilio senza comprenderlo, come chi osserva il lento disgregarsi delle cose. La perdita del latino nella Messa, l’altare rivolto ai fedeli, la distribuzione della Comunione sulla mano, la progressiva assenza del velo sulla testa della donne, tutto era stato per lui motivo di incomprensione. Accettato per obbedienza, potremmo dire, ma rigorosamente incompreso.

Accanto ad una fede incrollabile, ad una ricerca della povertà, ad una paterna attenzione ai più deboli, ogni cambiamento era stato per lui un tormento, una croce, fino a quell’agosto del 1982 quando si era spento. Era stato parroco di Biumo per 33 anni. Come gli anni del Signore.

Noi giovani del gruppo dell’oratorio avevamo espresso  giudizi terribili su di lui. E non li meritava tutti. Se c’era stata incomprensione era stata reciproca. Avevamo le nostre colpe e la nostra esuberante arroganza. Ci abbiamo messo molto a capirlo, in ogni caso quando lui ormai non c’era più.

Certo, don Guglielmetti non  era un uomo di mediazione.

Le processioni che partivano dal Lazzaretto, in occasione della festa di San Materno o durante la Settimana Santa o il Corpus Domini, avevano la loro base organizzativa a casa mia. Don Guglielmetti il giorno prima faceva recapitare paramenti e ceri che custodivamo nel tinello, con un certo elitario orgoglio borghese. Mia madre se ne vantava.

La nostra casa era la prima di Belforte, diceva, o l’ultima di Biumo, dicevano altri. Arrivavano a regolari intervalli i chierichetti: uno portava una pianeta e  una stola, un altro dei  camici, e poi cotte, rocchetti, cingoli, casule, pianete per il parroco, per i coadiutori e per i preti arrivati a Belforte  da chissà dove per dare rilievo e magnificenza alla processione in questo “quartiere rosso”.   Don Guglielmetti riservava un’attenzione particolare al megafono, negli anni cinquanta uno strumento d’avanguardia, posto accanto alle vesti sacre con pari importanza.

processione mariana a Belforte

processione mariana a Belforte

La processione dal Lazzaretto percorreva la via Tonale, svoltava in via Podgora per girare poi a destra lungo il viale. Il passo era lento: i chierichetti in una fila lunghissima con il loro abito rosso sotto la cotta bianca, le pie donne con i veli di pizzo nero. Seguivano i  ragazzi degli oratori rigorosamente separati per sesso e per età e la banda musicale, gli uomini di Azione Cattolica (sulla giacca il distintivo con la croce da cui partivano i promettenti raggi su fondo blu). Non ricordo più bene l’ordine preciso nella processione.  So che, a finire,  il popolo  man mano si snodava più indisciplinato. E più rigorosamente distratto.

Don Guglielmetti era maestro di teatro. Davanti al Circolo, quello dei comunisti e dei socialisti, insomma quello dei “senza Dio”, come li definiva,  con un gesto studiato fermava noi chierichetti. Tutti fermi. La banda aspettava istruzioni. I ceri gocciolavano, caldi sulle mani tra il pollice e l’indice. Era l’attesa, la preparazione all’acuto. Era il  suo momento.

Sul marciapiede a lato, al numero 165 di Viale Belforte, usciti dal Circolo gli uomini osservavano la processione ferma.  Sembrava uno sguardo freddo, il loro, o solo curioso.  Le donne, quelle sì,  sembravano sfrontate. Senza velo e senza rispetto.  Parlavano ad alta voce. Una fumava.

Don Guglielmetti restava in silenzio. I tempi erano calibrati. Si erano affinati negli anni, di processione in processione. Noi chierichetti eravamo in attesa del segnale. Ecco il momento: il parroco si faceva consegnare il megafono. Con voce metallica iniziava la sua predica, brevi parole taglienti sui mali del mondo, riflessioni sulla necessità di ritrovare un Dio cancellato anche lì, a Belforte, davanti al negozio della cooperativa.  Non era una sfida, ci ho messo anni a capirlo.  Era il suo grido di dolore.

Poi un attimo di silenzio. Un segno ai chierichetti, un gesto al maestro della banda. Ed esplodeva di petto un “Noi vogliam Dio, Vergin Maria, benigna ascolta il nostro dir”. E avanti, aperti e fiduciosi: “Noi ti invochiamo, o Madre pia; dei figli tuoi compi il desir”. A questo punto il culmine, il via libera a tutta voce,  le tombe a massimo  fiato, l’entrata dei  tamburi: “Deh, benedici o Madre, al grido della fè, noi vogliam Dio ch’è nostro Padre, noi vogliam Dio ch’è nostro Re”. Altro colpo di tamburo, incontro vivace di piatti, ripresa tonante perché nell’alto dei cieli si sentisse meglio quello che noi volevamo, nel caso ci fossero dubbi: “Noi vogliam Dio ch’è nostro Padre, noi vogliam Dio ch’è nostro Re”.

Un uomo davanti al Circolo si era segnato, lo ricordo bene. Un’abitudine antica. Don Guglielmetti intanto era arrivato alla curva tra via Lazzaretto e via Istria, sul retro delle case dei Bernasconi. A sinistra la chiesa, vestita a festa. La processione si era dispersa spontanea, aveva riempito il piazzale. Qualcuno osservava appoggiato all’obelisco.  In alto tra gli alberi, bandierine a festa, luci. A tirare i fili quelli del Circolo avevano dato una mano.

Perché era da sempre naturale, anche per “quelli senza Dio”,  dare una mano.

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