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Cultura

VERO E SENSO COMUNE

LIVIO GHIRINGHELLI - 11/09/2020

mooreGeorge Edward Moore (Londra 1873-Cambridge 1958), docente di filosofia e logica presso l’Università di Cambridge dal 1925 al 1939, vi esercita una straordinaria intelligenza analitica, influendo su pensatori come B. Russell e L. Wittgenstein. Durante tutta la sua carriera ha di mira il neoidealismo inglese di F.H. Bradley e J. Mc Taggart. Nella sua opera maggiore, Principia ethica, delle espressioni del linguaggio comune, con particolare attenzione a quello morale (1903), ritiene compito della filosofia ridurre gli enunciati complessi a combinazioni di enunciati più semplici, in cui compaiono elementi che non si possono ridurre ulteriormente. La bontà è per lui un predicato, una qualità irriducibile di certi oggetti o processi, il tentativo fatto dai filosofi di ridurla ad altre proprietà naturali conduce all’alterazione del senso degli enunciati valutativi, che contengono l’espressione buono (fallacia naturalistica). Si deve prescindere dal possesso di altre qualità, quali l’utilità o la piacevolezza: la bontà di ciò che è buono deve essere colta direttamente e non per mediazione (intuizionismo etico, non conoscibilità per via discorsiva). Non essendo buono un oggetto naturale, non può essere oggetto di conoscenza o di definizione. L’ambito etico va separato nettamente da quello conoscitivo (legge di Hume).

Compito del filosofo è analizzare il linguaggio etico per individuarne caratteristiche logiche e regole d’uso. Moore sottolinea inoltre che è impossibile derivare asserzioni con il verbo dovere da quelle con il verbo essere, le prescrittive da quelle descrittive. Sancisce la verità dell’ovvietà del senso comune.

Anche il neopositivismo, sulla base del principio di verificazione, ritiene le proposizioni etiche prive di contenuto conoscitivo. Lo scopo non è di stabilirne verità o falsità, ma di chiarirne l’uso che ne fanno i parlanti. Si tratta di una analisi degli impieghi. Se i contenuti non sono argomentabili, ecco intervenire l’intuizione. E quello che si intuisce, non si può dimostrare. Per Alfred Ayer (1910-1989) le asserzioni dell’etica vanno considerate come espressione di emozioni (l’analisi non sarà pertinente al contenuto del giudizio). Per Charles Leslie Stevenson (1928-1978) le emozioni espresse dal linguaggio etico sono parte di credenze o atteggiamenti, di un orientamento globale dei parlanti: si tratta di una funzione non semplicemente espressiva, ma anche persuasiva. Il linguaggio etico è al contempo dichiarativo e imperativo, persuasivo, con estensione al piano sociale per le implicazioni interattive. Anche per il Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus l’ambito dell’etica viene incluso in ciò di cui non si può parlare, non può essere oggetto di conoscenza. “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Essa resta tuttavia un’esigenza irrinunciabile, sentiamo che “i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati”, avvertiamo l’esigenza di dovere andare oltre quei limiti.

Una analisi specifica del problema sta nella Conferenza sull’etica, che risale alla fine del 1929 o all’inizio del 1930. La tendenza dell’etica urta contro i limiti del linguaggio, è un non-senso, ma un non-senso non banale, è un nostro problema vitale.

Altre opere di Moore: La confutazione dell’idealismo (1903); La difesa del senso comune (1925): Prova del mondo esterno (1939).

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