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Editoriale

PdC

MASSIMO LODI - 25/09/2020

di_maio_conte_zingarettiParlamentari segati: han vinto i Cinquestelle. Ha vinto soprattutto Conte. Si rafforza il suo virtuale partito, uscito bene dal referendum. S’indebolisce quello di Di Maio, uscito male dalle regionali. A sorpresa, tiene (anzi: fa boom, rovesciando il pronostico) Zingaretti che nel Pd molti davano per liquidando. In pole, a sostituirlo, era indicato Bonaccini che avrebbe riaccolto al Nazareno Renzi e con lui aperto a frange del centrodestra, Berlusconi innanzitutto. Nada de nada. Gaudeamus igitur, s’intona a Palazzo Chigi: il governo avrà vita lunga. Se n’avvantaggia la legislatura, non più in pericolo d’interruzione. Sarà questo Parlamento a nominare il nuovo presidente della Repubblica, non improbabilmente Mattarella successore di sé medesimo. Appuntamento a febbraio 2022.

Al premier più forte, pressato dai Dem risorti, si chiede di superare una cronica debolezza: il rifiuto a modificare la squadra, allargandola a migliori competenze, per ben utilizzare la carovana di milionari tir in arrivo dall’Unione europea. Conte rivendica il merito d’aver ottenuto l’investimento, ora gli tocca d’usarlo come si deve. Non, semplicemente, come si può. Dall’alto del successo elettorale ha il potere d’intavolare trattative non al ribasso. Può impedire condizioni e invece imporne: chi lo affiancasse, non gli farebbe ombra, e invece luce per illuminare gli strategici obiettivi economico-sociali.

Qui si mostrerà la perizia politica di Conte per il vantaggio del Paese. Anche l’abilità manovriera per costruirsi un proprio movimento, prevedibilmente mirato all’alleanza col Pd alle politiche del 2023. Va chiarendosi l’immaginabile suo ruolo in una futura consultazione: la seconda gamba del centrosinistra. Seconda e muscolosa, a differenza di quanto mostrano oggi formazioni come Italia Viva di Renzi e Leu di Bersani, molluschi fossili. Il PdC, Partito di Conte, prenderà molto di ciò che rimane dei Cinquestelle sbriciolati nelle urne: una quota residuale di populismo destinato all’estinzione.

Zingaretti avrà voce decisiva, oggi e domani. Per far durare un governo rinnovato, e per assegnare definitività nella futura legislatura a un’alleanza nata un anno fa suo malgrado. Suo di Zinga. I giallorossi tenuti insieme finora dall’antisalvinismo devono trovare un’unità di prospettiva. Il Capitano gli ha regalato praterie di consenso, impastandosi in un dentifricio d’errori. In pochi mesi ha perduto la metà dei consensi. Non solo: ha aperto una pericolosa frattura all’interno della Lega, una parte della quale s’identifica in Zaia, ex ministro eccellente e Doge del Veneto. Ancora qualche sbaglio e gli chiederanno conto della malaconduzione d’una segreteria apparsa sino all’estate del 2018 non scalfibile da alcuna fronda. E tuttavia un Salvini infragilito è l’utile partner che, assieme a Meloni e Berlusconi, Conte farebbe bene ad associarsi nella gestione del Recovery Fund, così omaggiando il Parlamento. In tal caso Giuseppi andrà a discutere non con il cappello in mano. Ma offrendo all’opposizione di mettere ‘sto cappello (‘sto cappellino, via) sopra la mano del gran gioco finanziario cui l’Italia s’appresta a partecipare.

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