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Opinioni

RICOSTRUZIONE SANITARIA

DAVIDE GALIMBERTI - 13/11/2020

ospedaleGli ospedali in emergenza, ma l’emergenza che continuerà anche quando – speriamo presto – gli ospedali saranno senza pazienti Covid. Il paradosso, o, meglio, l’amarissimo e probabile scenario, è legato a coloro che, nelle strutture sanitarie, devono andare per tutte le altre malattie.
Per decenni, soprattutto nel nostro territorio, la sanità ha avviato campagne di prevenzione e iniziative di volontariato tese a supportare la cura e la prevenzione delle malattie. Questo grazie a un’organizzazione fortemente improntata alla conoscenza, alla divulgazione, al coinvolgimento, alle cure d’avanguardia, al rapporto stretto con i pazienti reso possibile anche grazie ai tanti volontari dell’ambito socio-sanitario. Ecco, la pandemia ha cambiato e sta cambiando molto persino in questi aspetti.
Non è avventato pensare che i nostri ospedali, per riprendere le buone pratiche e le prassi che fino a febbraio erano quotidiane, possano impiegare anche due anni dal termine dell’emergenza coronavirus. Tempo che si rifletterà sulle vite di migliaia di persone, nonché sulla cultura della cura.
Di questo, infatti, stiamo parlando. Perché se sono drammatici i bollettini che ogni giorno riceviamo sulla diffusione del virus – e anche qui parliamo non di numeri astratti ma di persone – altrettanto preoccupanti sono i numeri delle visite rimandate, degli appuntamenti spostati, degli interventi per alcune patologie posticipati a data da destinarsi, dei pazienti che non vanno in ospedale per paura del contagio. Nomi e cognomi che per anni si troveranno a rincorrere il tempo che ora, gioco forza, stanno perdendo.
Si può fare qualcosa? Forse sì e, anche in questo caso, ognuno di noi è chiamato alla propria responsabilità personale. Leggo dai giornali che tanti ospedali sono in sofferenza anche perché ricevono nei pronto soccorso pazienti che vi si recano senza reale necessità e urgenza. Iniziamo da qui: facciamo ognuno la propria parte per aiutare in primo luogo medici e infermieri e, poi, anche il sistema sanitario nel suo insieme. Guardando sia all’emergenza attuale, sia alla programmazione futura.

Proprio sulla programmazione c’è poi, a mio parere, un altro decisivo aspetto messo ancor più in evidenza dalla pandemia: la necessità di potenziare la medicina territoriale. Se gli ospedali vanno in sofferenza, infatti, è anche perché prima manca un “filtro” da parte dei medici di base. E attenzione: in tantissimi casi questo non è certo imputabile ai medici stessi, che devono seguire in media 1400 pazienti ciascuno, ma, se mai, all’inquadramento burocratico in cui essi sono stati rinchiusi negli ultimi anni. Si parla tanto di sburocratizzare la pubblica amministrazione, ma un processo molto simile servirebbe anche alla medicina territoriale e alle strutture sanitarie pubbliche.

Perché funzionano quelle private? Perché il medico fa il medico. Visita, opera, effettua consulti e formazione. Non si occupa certo dell’organizzazione del reparto, degli acquisti, dell’approvvigionamento dei farmaci e dei materiali. Fa il medico “e basta”.
Nella sanità pubblica, invece, dopo aver formato medici e specialisti di alto profilo, quando arrivano al massimo della loro esperienza li mettiamo a organizzare reparti e a fare un lavoro che non hanno mai fatto. Così, nella ricostruzione che sarà necessaria a emergenza finita, dovremmo valutare la necessità anche di nuove professionalità sanitarie, esperti che mandino avanti i reparti per quanto riguarda gli aspetti amministrativi e gestionali e lascino ai medici la possibilità di fare i medici. È un grande progetto, è vero. Ma da questa crisi, come spesso avvenuto per altri periodi che hanno messo in discussione le nostre certezze, dobbiamo imparare come migliorare tutti.

Davide Galimberti, Sindaco di Varese

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