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Zic & Zac

IL PLINIO E LO SGARITT

MARCO ZACCHERA - 13/11/2020

pescaQuesto brano è tratto dal volume GENTE DI LAGO, edito recentemente dal Magazzino Storico verbanese.

Tutti siamo cresciuti leggendo la storia del gabbiano ribelle Jonathan Livingston e forse anche per questo i gabbiani ci sembrano un modello di libertà.

Godono di “buona stampa” come i delfini, le tartarughe marine o le balene, con gli umani che più o meno si preoccupano del loro destino, mentre tante altre creature animali hanno evidentemente un ufficio stampa poco efficiente e così gli squali, le orche, i lupi o le iene nel nostro immaginario suscitano meno “appeal” e pochi pensano che anche loro fanno parte dell’ecosistema e che sono le naturali abitudini alimentari che ne condizionano la vita ed il carattere..

Tornando ai gabbiani, la vicinanza con l’uomo – e non certo per colpa loro – negli anni ne ha cambiato profondamente le abitudini con un progressivo adattamento all’ambiente circostante estremamente antropizzato che li porta a vivere spesso tra le discariche o nei centri urbani vivendo di rifiuti e contendendo il cibo ai piccioni.

Ma non tutti i gabbiani (che in dialetto da sempre si chiamano “sgaritt”) sono fatti così e ce n’è sempre qualcuno solitario, che sembra vivere alla Jonathan Livingston.

Ne conoscevo uno di quel tipo e che aveva un rapporto tutto particolare con un altro uomo davvero un po’ speciale come era il Plinio Ghidoli.

Il Plinio pescava qualche volta le trote d’inverno in mezzo al lago con la sua lunga trotiera di fil di rame, ma soprattutto puntava ai persici in tutte le stagioni.

Grande portiere di calcio in gioventù, il Plinio era soprattutto un pescatore da barca e quindi da tirlindana, uno che i fondali di Pallanza e del Golfo Borromeo li conosceva alla perfezione ed aveva quel naturale senso di orientamento dettato dall’esperienza che non ti fa sbagliare una legnaia a trecento metri da riva.

Qui bisognerebbe spiegare bene cosa sia una “legnaia” ma limitiamoci a chiarire che è (o era, visto che la tradizione sta scomparendo) una grande catasta di fascine di legna verde ben fissate sul fondo del lago dove d’inverno trovano riparo e casa i pesci persico nidificandoci poi a primavera.

Bisognava essere bravi a rimanere il più possibile vicino alla legna, ma senza mai agganciarci l’ amo o il piombo, altrimenti si strappava tutto. Se vi sembra facile pensate che magari ci sono trenta metri d’acqua dal fondo alla chiglia della barca e basta quindi un filo di vento o di corrente per spostarvi in pochi secondi: o siete bravi a tenervi fermi o cambiate mestiere.

Il Plinio in questa pesca era maestro conoscendo tutte le collocazioni delle legnaie dei Lamberti, mitica famiglia di pescatori professionisti dell’Isola e proprietari del diritto di pesca davanti a Pallanza. A seconda della stagione pescava in movimento sopra quelle più vicine a riva o fermo sulle più lontane, anche se sono le meno facili da ricordare.

Dunque, il Plinio le legnaie le conosceva tutte e a seconda del vento e del tempo si muoveva con la sua barchetta che – a furia di ripassate di vernice e di rattoppi – sembrava un mezzo da sbarco mimetizzato.

Pescava stando a poppa della sua “lancetta” (che è un po’ più corta della “lancia” classica, quelle che allora costruivano alla Sacca di Stresa nel cantiere Vidoli o in quello di Lisanza) e bastavano due remi corti per dare qualche colpetto avanti e indietro e rimanere più o meno fermi sui punti precisi.

Ed è stato proprio lì che un giorno un gabbiano è planato sulla lancetta del Plinio piazzandosi con coraggio sulla punta di prora.

Si devono essere guardati un attimo, si sono capiti subito, il Plinio deve avergli lanciato un pesciolino morto che il gabbiano ha gradito e così è cominciata l’amicizia.

Che il Plinio uscisse dal porto di Pallanza all’alba o al tramonto, d’estate o d’inverno, non faceva a tempo a girare intorno al molo con la statua di san Dazio che il gabbiano andava a posizionarsi in punta alla barca e di lì non si muoveva più.

Forse si parlavano, certamente se la intendevano e più gli anni passavano più i due sembravano inseparabili.

Se la barca restava in porto per riparazioni il gabbiamo stava fermo, in attesa, fisso sulla testa del san Dazio e guardava giù: “Alùra, ‘ndem?” sembrava dicesse perché – visto che il Plinio parlava dialetto – il gabbiano evidentemente non poteva che interloquire che con la sua stessa cadenza.

Qualche volta, uscendo insieme per andare a persici, vedevo il gabbiano arrivare deciso verso di lui ma – a sottolineare il suo disappunto per l’anomala mia presenza – volava intorno e poi si posava a pochi metri dalla barca rimanendo fermo sull’acqua, forse in attesa di riprendere il discorso. Se gli lanciavi un pesce non disdegnava prenderlo al volo, ma confidenza zero.

Sui libri c’è scritto che un gabbiano vive anche 10 o 15 anni e quindi non credo ci sia stato un passaggio volatile generazionale di padre in figlio, ma penso che i due attori abbiano continuato a pescare insieme, finché un giorno il Plinio non è uscito più e la sua barca è rimasta abbandonata giù al porto piena di foglie.

Un giorno, passando, non l’ho vista più.

Era una barca vecchia e mezza marcia, roba inutile da rubare e quindi mi piace immaginare che una notte si sia slegata da sola e abbia preso il largo spinta dalla brisa, magari inabissandosi proprio sopra la legnaia che sta lì davanti, con a bordo lo spirito del Plinio e del suo vecchio amico sgaritt che così – in qualche modo – potranno continuare a pescare e a chiacchierare per sempre.

(per informazioni o acquisto volume contattare: marco.zacchera@libero.it)

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