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Pensare il Futuro

NECESSITÀ SOCIALE

MARIO AGOSTINELLI - 27/11/2020

scienzaQuando ho iniziato a collaborare con RMF online, ormai cinque anni fa, avevo accettato la proposta di un blog quindicinale che trattasse di un futuro in tumultuoso cambiamento, ma non avrei mai pensato che “il domani arrivasse prima che te lo aspetti”. Con le prove cui ci sottopone il COVID-19, che infierisce anche sulla nostra provincia, ci troviamo di fronte ad una sfida che è riduttivo chiamare organizzativa: è una sfida filosofica, è la visione del mondo che cambierà e su cui dovremo costruire il nuovo, a cui non ci siamo affatto preparati. Anche se le avvisaglie di un’emergenza c’erano tutte, ne parlavano solo i più accorti – Francesco e Greta per il clima; le ONG in soccorso dei migranti nel Mediterraneo; i pacifisti allarmati per il pericolo nucleare – mentre la vita di tutti i giorni si andava trasformando, in seguito alla esplosione della pandemia, in un “dopo in cui niente sarebbe stato più come prima”.

Credo che per prendere coscienza dell’intensità del cambiamento in corso occorra percepire a fondo di essere ad un passaggio d’era, in cui il rapporto tra la società umana e la biosfera in cui essa abita vada completamente rivisto. Le questioni della vita, della cura, della pace, della democrazia si intrecciano con modalità per cui il sistema economico-politico-sociale attuale non sa trovare risposte. Sono i “fondamentali” ad essere messi in discussione.

Così, per fornirne un esempio, provo in questo post a soffermarmi su un aspetto che sembrava riservato per lo più al “fiore”, agli “apici” dei gruppi dirigenti e che è invece diventato un argomento di riflessione popolare: il rapporto tra scienza e politica, messo alla prova dall’angosciante diffusione del virus. Un rapporto diventato di grande delicatezza per la decisionalità collettiva anche perché rivelato nella sua ambiguità ossessivamente ad ogni ora del giorno dai media sotto le forme labili delle zone rosse, gialle, arancione o della scarsa prevedibilità dell’efficacia delle protezioni o dell’impalpabilità del meccanismo di contagio, o, ancora, della pericolosità delle pratiche di relazione o dell’eventualità più o meno prossima di un vaccino etc.

Siamo quotidianamente inondati da un profluvio di dati, determinanti al fine di stabilire scelte decisive che incideranno per un lungo periodo sul terreno sociale, economico, addirittura morale dell’intero Paese. La crisi del coronavirus ha rappresentato non solo un’accelerazione, ma una rottura di un processo già in corso. La novità più importante questa volta non riguarda le scelte individuali, ma l’approccio nell’analisi e nella selezione degli obiettivi da testare ai fini della salute e, addirittura della sopravvivenza dell’intera popolazione. E qui è bene riflettere sul rapporto tra scienza e politica, tanto più che sono forti le tendenze a denigrare l’attività politica e istituzionale in quanto tale, non distinguendone la molteplicità di aspetti, ma confondendo tutto in un calderone che sotto l’insegna dell’antipolitica ha portato a governare un Paese come l’Italia all’insegna di populismi e corporativismi di basso profilo, che adesso stanno presentando il conto.

Tanto nel senso comune quanto tra gli specialisti, in particolare in un’era di fortissima velocizzazione nell’innovazione tecnologica e di relativa spettacolarizzazione, si tende a considerare la scienza e la politica come due sfere indipendenti dell’attività umana e gli scienziati come sostanzialmente immuni da qualsivoglia ideologia. Resta invece intatta – e nel nostro caso ancor più stringente – l’esigenza di ripensare la relazione tra la concretezza storico-politica della scienza e le sue fondamentali pretese di universalità.

Nel caso della pandemia, si sono registrate ripetute imprudenze sul piano della comunicazione sia da parte di personalità politiche, che da parte di virologi e infettivologi o scienziati di discipline affini. Va subito detto che, trattandosi di un’emergenza sanitaria, il carattere pubblico del dibattito avrebbe richiesto maggiore attenzione alle differenti ipotesi in campo, anche quando esse non fossero avallate soltanto da un grado di autorevolezza presunta, spesso decisa dai direttori dei telegiornali ospitanti o dai responsabili politici in forza al momento.

Ritorna l’eterna questione della neutralità della scienza. Propendere verso un’opinione o un’altra non dipende dai gradi mostrati sui teleschermi dalle didascalie sovrapposte al proponente. Dichiarare che la scienza non è neutrale significa sia assumere la politicità della sua realizzazione storica e dell’uso che se ne fa, sia prima di tutto comprendere che è spesso dentro al suo tessuto interno, nella formulazione delle ipotesi e nella costruzione dei suoi strumenti, che si trova traccia di scelte politiche e di rapporti di potere.

Oggi siamo di fronte ad un ruolo politico effettivamente assunto dagli scienziati, tanto nei mezzi di comunicazione di massa quanto all’interno dei comitati tecnico-scientifici, rispetto alla gestione della crisi sanitaria attuale. Allo scienziato che sta nella “torre d’avorio” si chiede di uscire, per entrare nella “piazza”: che la torre sorga già nella piazza e che tutto possa essere predisposto passa del tutto inosservato. C’è invece – direbbe Gramsci – una “necessità sociale” di tenere insieme la scienza e la politica. Oserei dire che siamo in un tempo in cui la scienza, poiché si applica a diritti universali che riguardano l’intera umanità può ottenere garanzie di giustizia solo da una democrazia politica e sociale che si estende in pace all’intero pianeta. Ma mai come in questo anno 2020 abbiamo corso il rischio che queste condizioni si divaricassero irreversibilmente.

Il “casus belli” potrebbe essere innescato addirittura dall’auspicato vaccino anticovid. L’efficacia di una campagna di vaccinazione si basa sulla sua universalità. I governi dovrebbero renderlo disponibile gratuitamente. Per renderlo disponibile a tutti, il vaccino dovrebbe essere liberato da qualsiasi brevetto. Ciò consentirebbe ai governi, alle fondazioni, alle organizzazioni non-profit, agli individui filantropici e alle imprese sociali (ovvero, le imprese create per risolvere i problemi delle persone senza trarne alcun profitto personale) di farsi avanti per produrre e / o distribuire questo in tutto il mondo. Il vaccino, in sostanza, dovrebbe essere di diritto e di dominio pubblico. In un pianeta dove il capitalismo non sembra avere più antagonisti e immersi, come siamo, nelle competizioni ereditate dal passato e perduranti nel presente, saremo capaci e all’altezza di un obbiettivo assolutamente irrinunciabile in un frangente così decisivo per il futuro?

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