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Cultura

PASTORI DI LOMBARDIA

CESARE CHIERICATI - 04/12/2020

remencCi sono libri fotografici, come l’ultimo di Carlo Meazza Remènch, transumanza in Lombardia, Pubblinova edizioni Negri, che per me è preferibile percorrere a ritroso.

Dall’ultima sezione intitolata Vita da pastori e tosatori, su fino all’attenta prefazione di Enzo Laforgia. I pastori escono dalle ultime, bellissime, sessanta foto per trasformarsi da coreografici e bizzarri figuranti del paesaggio in persone vive, concrete che parlano a voce piana di se stessi, della loro vita altra e “diversa”, del loro mestiere ruvido e antichissimo.

“Le interviste sono un prezioso racconto corale dei pastori” annota infatti Lucia Maggiolo che con il fotografo ne ha curato l’impianto e la trasposizione su carta. “Offrono interessanti spunti di riflessione su un segmento della nostra società sconosciuto a molti o immaginato, secondo un falso stereotipo, come eredità immutata del passato”.

Non è così. I pastori transumanti si adattano di continuo ai cambiamenti del mondo in cui si muovono. Continuano a fare a piedi, come sempre, chilometri su chilometri incrociando ostacoli che non c’erano o erano minori: strade, autostrade, ferrovie, costruzioni. Barriere che frammentano e affettano il territorio costringendoli spesso a slalom faticosi e pieni di insidie. Come testimonia del resto la strage di domenica scorsa 29 novembre con una novantina di pecore investite e uccise a Gazzada Schianno da un treno della linea Milano – Varese.

Una disgrazia che forse i pastori mettono in conto nella loro passione / professione che pure ha ricevuto dalla modernità anche qualche elemento migliorativo della condizione nomade: le roulotte dove dormire e cucinare, le reti per costruire recinti mobili a bassa tensione elettrica per la notte, i camion su cui trasportare le greggi sugli alpeggi estivi, i telefoni cellulari che rompono l’isolamento e semplificano le relazioni con i familiari, con i colleghi, con le burocrazie talvolta mortificanti di Comuni e Regioni. Tutti cambiamenti che non hanno certo intaccato la millenaria tradizione in cui affondano le radici. Vengono da lontano i pastori transumanti e vengono da lontano gli strumenti e le cose del loro lavoro quotidiano. Meazza li racconta e li illustra facendo conoscere innanzitutto i cani, sveglissimi, protagonisti indispensabili della transumanza, “quasi sempre incroci tra razze specializzate nella cura del bestiame” cui talvolta si affiancano gli enigmatici maremmani, rocciosi difensori delle pecore minacciate dal ritorno di lupi e orsi.

Poi una deviazione fino a Premana, in Valsassina, a conoscere l’ultimo artigiano dei coltelli da pastore, Nicola Codega, figlio d’arte che ancor oggi lavora nella bottega del nonno aperta nel 1919. Sforna coltelli che sono allo stesso tempo strumenti di lavoro ma anche bisturi con cui si curano, in prima battuta, gli inconvenienti agli zoccoli di pecore e asini. In attesa del veterinario. Non meno importanti nell’arsenale professionale sono infine i bastoni, i campanacci, i gilet, gli scarponi chiodati in cuoio. Un corredo vero e proprio per essere veramente “estì da pastur”,vestiti da pastore. Subito dopo ci si imbatte poi in quella che per il mondo della pastorizia è la questione centrale della lana, non più risorsa ma costo determinato dalle spese di tosatura e smaltimento, riassumibile in due cifre: due euro per la tosatura di una pecora, venti / trenta centesimi il ricavato dalla vendita di un chilo.

È a questo punto che il lungo viaggio di Meazza coi i pastori (11 mila chilometri in auto e a piedi, tre anni di ricerche) si declina all’interno delle quattro stagioni tra il sud e il nord della Lombardia. Nelle golene dei fiumi della Bassa, nelle pianure padane senza orizzonti, lunghe le sponde quiete dei laghi, compreso quello di Varese, e poi su in alta quota dove le estati roventi si stemperano e l’erba è in ogni caso sempre più fresca. Come permeata da una freschezza antica è la lingua dei pastori, il “gai”, un gergo, un registro linguistico esplorato e spiegato all’inizio del volume da Anna Carissoni. Lei, cittadina dell’Alta Val Seriana, stregata bambina dal mondo pastorale, scrive: “I pastori mi apparivano come personaggi quasi mitici, per quel loro vivere così diverso da quello della maggioranza dei convalligiani, col loro perenne movimento, col loro dormire sotto le stelle e soprattutto col loro parlare misterioso, il “gai”, accessibile solo a pochi iniziati in grado di decifrarlo”.

Alla fine dello scorso anno L’Unesco ha proclamato la transumanza italiana patrimonio culturale immateriale dell’umanità precisando che si tratta del “movimento stagionale del bestiame lungo gli antichi tratturi nel Mediterraneo e nelle Alpi”. Un riconoscimento lusinghiero che non li illude. Commenta ironico Daniele Savoldelli pastore di Schilpario: “è come dire te set bell. Si, sun bell e alura?”

Con Carlo Meazza hanno collaborato Marta Morazzoni, Anna Carissoni, Giovanni Mocchi e Lucia Maggiolo.

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