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Sport

DINASTIA DI PEDALEUR

CESARE CHIERICATI - 11/12/2020

Aldo e Francesco Moser

Aldo e Francesco Moser

C’è una foto tra le poche proposte in internet che racconta al meglio il ciclismo di Aldo Moser, morto mercoledì 2 dicembre a ottantasei anni, fratello del più famoso Francesco, capostipite di una famiglia votata al lavoro e al successo attraverso la fatica sportiva e imprenditoriale.

Aldo è in mezzo alla neve alta sul finire della mitica tappa del Giro del 1956, la Merano –Trento Bondone di 242 km. Impugna la bicicletta come una picca: la mano destro sotto la canna, la sinistra sul manubrio; indossa i pantaloncini neri di lastex, la maglia a mezze maniche della Maino, la sua squadra; livido per il freddo spaventoso sta per raggiungere il traguardo di quella frazione siberiana che, sconvolgendo la classifica, gli consegnerà il miglior piazzamento (5°) nei sedici Giri disputati in carriera. A Milano la maglia rosa vestirà le esili spalle del lussemburghese Charly Gaul, il piccolo scalatore dagli occhi azzurri che inteneriva le ragazze e trinciava le salite con rapporti agilissimi, “da maestrina” (copy Mario Fossati).

Aldo aveva solo ventidue anni e fra una corsa e l’altra aiutava il padre contadino e viticoltore. Era un giovane talento costretto a misurare il passo con i grandi campioni dell’epoca avviati al tramonto ma pur sempre fortissimi – Coppi, Magni, Kubler, Koblet, Bobet, Van Steenbergen, Bartali si era appena ritirato – e gli emergenti Anquetil, Nencini, Baldini, Van Looy. Vincerà in diciannove anni di professionismo una manciata di corse in linea (Coppa Bernocchi, Coppa Agostoni, Gran Premio Industria e Commercio di Prato le più importanti); chiuderà al terzo posto il Giro delle Svizzera del 1962; vestirà per quattro volte la maglia azzurra ai mondiali, l’ultima nel’71, a Mendrisio, a trentasette anni suonati. Una buona carriera la sua, impreziosita da una naturale propensione per le gare contro il tempo che all’epoca scandivano i finali di stagione: il Gran Premio della nazioni a Parigi, il Gran Premio Martini a Ginevra, il Gran Premio Campari a Lugano, il Trofeo Baracchi a coppie sull’asse Bergamo – Milano.

Per sei anni Aldo lo troviamo ai primi posti di quelle bellissime gare poi inopinatamente cancellate dai calendari. In tre occasioni fu primo: nel 1959 a Parigi davanti a un fuoriclasse del calibro di Roger Rivière, il formidabile pistard francese stroncato da una rovinosa caduta durante il Tour del ’60. Per due volte (’58 –’59) in tandem con Ercole Baldini si aggiudicò il Baracchi. Un piazzamento che lo inorgogliva molto a distanza di anni era quello ottenuto alla Te Valli del 1955, l’unica disputata a cronometro, in cui appena ventunenne finì alle spalle di Coppi – a 2’,45”- su una distanza di 100 km che aveva inghiottito in un vortice di abissali distacchi tutti gli altri concorrenti.

Quel successo consegnò al campionissimo il quarto titolo di Campione d’Italia. La stella di Aldo pedalatore coriaceo e mai domo, cominciò a scolorirsi quando del tutto inaspettato si manifestò il talento del fratello Francesco che un giorno decise di seguirlo in un allenamento che prevedeva la scalata al Passo del Brocon.

Aldo me lo raccontò nel piccolo ufficio della fabbrica di biciclette adiacente la grande casa di famiglia di Palù di Giovo affacciata ai vigneti che disegnano la Val di Cembra. Ero salito dai Moser per conto della RTSI per cercare di capire quale fosse il segreto di una famiglia che sfornava, allo stesso tempo, campioni delle due ruote, artigiani, viticoltori e persino un frate emigrato in Canada. Francesco aveva da poco migliorato il record dell’ora (1984) strappandolo a Eddy Merckx e dando inizio a una rivoluzione tecnologica senza fine. Nello stesso anno aveva anche vinto il Giro d’Italia e tutte le luci della ribalta erano per lui, ma la gerarchia nel clan non era cambiata: Aldo, di diciassette anni più anziano, restava il capo branco, il numero uno del piccolo impero agro – ciclistico.

Sorridendo tornò a una lontana storia di fratellanza che gli stava a cuore. Disse che un giorno aveva convinto Francesco, allora sedicenne, a seguirlo in allenamento per avere un po’ di compagnia. “Era la prima volta che lo portavo con me per un’uscita impegnativa. Mi accorgo che sale i tornanti del Brocon senza fare in apparenza fatica, allora per divertirmi cerco di metterlo alla prova: aumento l’andatura, mi giro e vedo che non fa una piega; scatto, mi alzo sui pedali, mi giro di nuovo e lui è sempre lì fresco come una rosa. In quel momento ho capito che aveva stoffa da vendere, che avrebbe potuto far meglio di me a patto di accettare le asprezze e i sacrifici che il ciclismo chiede senza far sconti a nessuno”.

Dopo un passaggio lampo tra i dilettanti, Francesco confermò con una carriera sfolgorante l’intuizione del fratello maggiore, veicolando, non solo nel mondo delle due ruote, il nome dei Moser. Proprio le ruote lenticolari sperimentate con successo a Città del Messico per il record dell’ora si rivelarono un ottimo affare. Le richieste furono numerosissime. Tutto ciò non faceva velo però alla sua innata lucidità di montanaro coi piedi per terra. “Devono essere tanti i ciclisti della domenica – sottolineava ironico – che comprano le lenticolari pensando di diventare dei campioni, in realtà buttano i soldi fuori dalla finestra, contenti loro…” Dello stesso avviso era naturalmente Francesco che ci aveva raggiunti dopo un allenamento forsennato sulle strade del Garda. “Si, io sono sempre aperto alle sperimentazioni – diceva – provo tutte le diavolerie della tecnologia ma alla fine in bicicletta salgo io e se vado forte o meno dipende da me, dalle mie gambe, dal mio cuore, dalla mia concentrazione mentale”. Ovvero “la testa e i garun”, vecchia, insuperata massima ciclistica del nostro Alfredo Binda da Cittiglio, campione moderno del ciclismo antico.

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