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Parole

SHOAH/2 EDITH

MARGHERITA GIROMINI - 29/01/2021

bruckUna non credente scrive una lunga lettera a Dio per chiedere che le venga salvata la memoria perché possa continuare a testimoniare la memoria della Shoah fino all’ultimo respiro.

È il capitolo conclusivo del libro “Il pane perduto” della novantenne ebrea Edith Bruck, un’infanzia interrotta dalla deportazione nel piccolo villaggio ungherese che nel 1944 la ripudiò in quanto ebrea per consegnarla, spogliata di tutto, nelle mani dei nazisti.

Edith aveva tredici anni: il caso o il destino decisero che sopravvivesse ad Auschwitz, a Dachau e a Bergen-Belsen, che conoscesse, senza essere scelta, il terribile dottor Mengele, che scampasse alle lunghe marce imposte dai nazisti in fuga ai superstiti dei lager. Tutto questo perché potesse approdare alla lunga vita che ancora la vede lucida testimone della Shoah.

Edith Bruck ha scelto l’Italia come sua patria: per passione incondizionata verso la nostra lingua che è quella in cui da trent’anni scrive i suoi libri e per amore verso Nelo Risi, il compagno di un’intera vita.

Aveva una madre molto credente, una donna che invocava Dio in ogni momento della giornata chiamandolo in causa anche per le necessità di ordine materiale. Edith ascoltava perplessa e anche un po’ scettica: come poteva Dio occuparsi di problemi quotidiani come le scarpe per i sei figli, la legna per il fuoco, la primavera che non arriva mai, la farina per il pane o la carne per celebrare il sabato?

Ma la fede della madre appariva incrollabile: anche se Dio non rispondeva, era dovunque e dunque anche lì ad ascoltare.

Oggi è lei, Edith, l’anziana donna non credente, a parlare con Dio. A scrivergli una lettera con le stesse domande che si poneva da bambina, domande silenziose rimaste a lungo senza risposta.

Perché io, perché ci hanno cacciati dal villaggio, perché sono finita in questo inferno, perché sono morti i miei familiari, perché io sono viva? Le domande di sempre dell’umanità ferita.

Edith cerca nuove parole per definire Dio nella speranza di essere accolta: che Dio risponda, quando si sentirà chiamare “Unica Infinita Ripetizione” e “Grande Silenzio”.

A Dio confida la riflessione centrale della sua lunga vita, parte della quale spesa a testimoniare: se è sopravvissuta all’orrore dei lager un senso allora ci deve essere.

“Con la mano sospesa e lo sguardo fisso nel vuoto” questa volta prega sapendo di farlo per avere una sola cosa, in questo differenziandosi dalla madre che nel suo ininterrotto colloquio con Dio implorava senza sosta mille grazie per la sua famiglia.

Da non credente come si definisce, da “infedele fedele”, chiede a Dio che le mantenga la memoria, suo pane quotidiano.

Perché deve continuare a testimoniare e a “illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie”. Ha delle risposte da fornire ai giovani che, dovunque vada, le pongono sempre tre domande: crede in Dio? perdona il Male? odia i suoi aguzzini?

Edith Bruck risponde: che arrossisce come se le chiedessero di denudarsi, alla prima domanda; che può perdonare solo sé stessa e nessun altro essere umano, alla seconda; che prova pietà e mai odio per i suoi aguzzini, all’ultima.

Così si chiude la lettera di Edith Bruck a Dio: “Ti ringrazio, nella Bibbia Hashem, nella preghiera Adonai, nel quotidiano Dio”.

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