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Libriamo

CARAMELLE AMARE

DEDO ROSSI - 05/02/2021

il-quaderno-dellamore-perdutoUn libro letto quasi per caso può a volte aprire squarci, portare in superficie pensieri e dolori e metterti di fronte ad una inquietudine con la quale devi fare i conti.

È il caso di “Il quaderno dell’amore perduto” di Valérie Perrin, più nota forse per il suo ultimo “Cambiare l’acqua ai fiori”, sempre per l’editrice Nord, diventato in Francia nel 2015 un vero caso editoriale.

Questa la storia: Justine, la protagonista, è assistente nella casa di riposo “Le Ortensie”, a Milly, un paese di cinquecento anime al centro della Francia. Qui conosce Hélène, un’ospite arrivata al capitolo finale della sua esistenza, piena di passione e di dolore, di tragedie e di rinascite, segnata soprattutto da un amore che la guerra aveva cercato di distruggere. Tutto questo non può essere disperso, pensa Justine, l’assistente. Compra un quaderno azzurro e inizia a riportare tutte le parole di Hélène. Questo le permetterà di fare i conti con la propria vita, con i propri dolori, con il proprio futuro. Finale a sorpresa.

Mi rendo conto che una sintesi così non rende giustizia ad una storia semplice ma scritta bene, delicata, dettagliata nei sentimenti e nella fotografia delle persone. Insomma, per farla breve: si legge volentieri.

Soprattutto chi ha vissuto in questi tempi la vita e le angosce delle case di riposo trova in alcune pagine, in alcune parole, in alcuni dettagli più che nella totalità della storia, un bisturi che incide, una malinconia e insieme una tenerezza che si vorrebbe lasciare a riposo in qualche angolo interno. Questo libro rappresenta un’occasione per fare i conti non solo con il dolore recente ma anche con storie lontane dai sentimenti confusi, per capirli, gestirli e anche perdonarli.

È morta di Covid, poche settimane fa, mia suocera. O meglio dire: la mamma di mia moglie. Il termine suocera sa di burocrazia e di distacco. Era in una casa di riposo da qualche anno. Non era stata una mamma facile. Si portava addosso la sua scontentezza, a volte dolente e a volte distante, in bilico tra tristezza e depressione. Aveva difficoltà nell’essere felice, eppure sapevamo che avrebbe potuto avere una vita serena. Sarebbe bastato poco: forse la capacità di sguardi diversi e di abbracci, e non mi riferisco al periodo in cui per ragioni di salute era stata ricoverata nella casa di riposo.

Era stata aggredita dalla vita, a volte, e non aveva avuto le armi per combattere le sue battaglie. Andavamo a trovarla quasi tutti i giorni. Passava la giornata a chiamare i nomi dei figli, come una litania consolante. Se ne stava sola. Guardava la parete bianca nell’aspettare il pranzo e la cena e l’arrivo di uno dei figli. Dalla finestra la catena del Monte Rosa, il lago e i prati e soprattutto certi tramonti catturavano gli sguardi di tutti, tranne il suo. I discorsi degli altri ospiti la infastidivano, tanto che a poco a poco nessuno ha più infastidito lei.

Anche con noi i discorsi erano scarni, cosa hai mangiato, come stai, sei andata a Messa domenica, vuoi una caramella. Si, questo si. E le caramelle diventavano due o tre. Ci sembrava un modo di comunicare affetto: mostrare sorrisi, tenere una mano, accarezzare i capelli e darle con complicità una o due caramelle in più quando le infermiere non erano presenti. La sua testa funzionava, dicevano i medici, ma non cercava notizie o sentimenti. Elencava i suoi dolori e i suoi fastidi, che si intensificavano al momento di andare via. Non era donna di tenerezze. E non solo da quando era nella casa di riposo. Era una donna ferita, stanca, che si sentiva in credito perché la vita non era stata generosa. Sorrideva poco.

Andavamo a trovarla tutti i giorni, noi o gli altri figli. Era il tentativo di porre un rimedio, di attenuare con la nostra presenza il suo sguardo negativo sulle cose e sulle persone. Non ci siamo riusciti, se non in rari giorni, quando mostravamo sul cellulare le foto dei nostri figli e nipoti e inventavamo racconti allegri.

Con l’arrivo del coronavirus era rimasta isolata. Le visite erano state sostituite prima da incontri veloci attraverso un vetro e poi da videochiamate alle quali rispondeva a fatica, perché non riusciva a comprendere sempre bene al telefono e schiacciava troppo il cellulare contro la guancia. Non poter essere vicini, toccare una mano, muoverle i capelli con le dita, sapere che se ne sta andando così, perché è nell’ordine delle cose, procurava una angoscia che invadeva i pensieri della giornata.

Dalla casa di riposo uscivano le notizie di alcuni ospiti positivi, poi sempre di più, poi l’inizio di suoi malesseri non ben identificati, poi la febbre. Al telefono cercavano di rassicurarci. Oggi è meglio. La teniamo sotto controllo. Riposa, ha ancora febbre. Il medico dice che ripasserà ancora tra un’ora.

Improvvisa ma non inattesa, il mattino successivo la telefonata della direzione. Siamo dispiaciuti di comunicarle che stanotte è improvvisamente peggiorata ed è venuta a mancare. No, era serena. Non ha avuto dolori. (Avrei voluto aver preso io quella telefonata, non mia moglie, per attenuarle il dolore). Le condoglianze di tutta la struttura. E le istruzioni su cosa fare, come prendere i vestiti, come rispettare le regole e tutto il resto.

Sono andato nella sala sterile per un saluto. Ho visto un corpo avvolto in bende, coperto da un lenzuolo. Pareva dormire. Non c’erano segni di sofferenza. Ho pregato e l’ho affidata al mio e al suo Dio. Le infermiere con i loro scafandri speravano in preghiere veloci. Mi sono poi fermato nel cortile, sotto l’albero grande. Mi sono seduto. E ho vissuto con tenerezza la mia tristezza.

Abbiamo fatto fatica a trovare una foto in cui era ritratta sorridente, per la lapide, accanto al marito morto presto a poco più di cinquant’anni e al figlio maggiore morto solo tre o quattro mesi prima. Non le avevamo mai detto che il figlio maggiore era morto. Ma doveva averlo intuito. Non aveva più fatto il suo nome.

Aveva 95 anni. E c’è sempre qualcuno che ripete le solite banalità, cosa vuoi di più, ha fatto la sua vita, aveva i suoi anni, meglio così che stare qui a soffrire. E cose simili. Mia moglie restava in silenzio: solo quando muore la mamma si diventa definitivamente adulti, si ha la definitiva dimensione della propria storia. E si ha uno sguardo nuovo, tenero e disarmato, sui figli e sui figli dei figli. Si vorrebbe averli accanto, per toccarli, per sentirli nella carne. È come se di colpo si fosse capito tutto.

Dalla casa di riposo uscivano notizie di altri morti. Quando si poteva frequentare la struttura, prima del virus, si era creato un tessuto di relazioni. Qualcuno aveva figli o nipoti presenti con regolarità. Altri non ricevevano quasi mai visite e si inventavano storie per attenuare il dolore delle assenze. Una diceva a tutti quelli che incontrava: mio figlio lavora, sapesse quanto lavora, non ha tempo di venire a trovarmi. Eppure per far firmare delle carte per la vendita di una casa, un ritaglio di tempo era stato trovato. Si intuivano a volte storie di dissapori, di case, di soldi, di cose non dette.

Le assenze non venivano mai sottolineate: le assenze di figli, di nipoti, di pronipoti, di altri parenti. Ma proprio nel non dare voce a queste assenze si esprimeva il dolore, la dolente rifiutata certezza di non essere più importanti. Certo, è questo il dolore.

Ma era soprattutto la domenica il giorno dell’angoscia, per chi non riceveva mai visite.

Nel romanzo della Perrin, per gli “abbandonati della domenica”, come la protagonista chiamava questi ospiti, un “corvo”, una voce anonima contraffatta aveva ingegnosamente inventato un sistema per cambiare gli eventi. Dall’interno della struttura telefonava ai parenti: Qui è la direzione della Casa di riposo Le Ortensie. Volevamo informarvi del decesso di… Siete pregati di presentarvi domani mattina alle undici in segreteria, per il trasferimento della salma. Le nostre più sentite condoglianze.

Veniva costruita così una visita inattesa, una sorpresa, un lampo. Si creava così una sorpresa e insieme un attimo di felicità. Certo, non è cosa legale, lo sappiamo bene: ma leggendo queste pagine il desiderio di mettersi a fare telefonate simili mi è venuta. E chissà, magari…

Nelle ultime pagine del romanzo della Perrin si scoprirà chi è l’autore di queste telefonate geniali. Ma non posso svelarlo ora.

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