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Libri

SPECIALISTA DELL’EMERGENZA

GIANNI SPARTA' - 19/02/2021

 

“La luna sulle ali” è il libro (editore Macchione) che Gianni Spartà ha scritto, con Lorenzo Alessandrini, raccontando la straordinaria storia di Giuseppe Zamberletti, varesino doc e padre della Protezione civile. Ecco una parte del primo capitolo, intitolato “Il proconsole”.

Alla voce «inventori» i vocabolari italiani e stranieri contemplano una serie di attività dell’uomo: l’aviazione, il cinema, l’informatica, lo sport, più in generale la scienza, l’economia e la tecnica. Le vicende della politica, riassunte in trentacinque pagine, sono indicate come sottocategorie, per lo più di matrice ideologica: il comunismo, il fascismo, l’imperialismo, il femminismo, l’anarchismo, ovviamente la democrazia nelle sue sfaccettature. Diceva Massimo D’Azeglio nel 1849: «Il mondo cammina per colpi di scena, mentre si scrive, esso si trasforma». Tradotto più semplicemente: l’urgenza produce adattamenti e dunque innovazioni. Come quella attribuita al protagonista di questo libro, Giuseppe Zamberletti: la Protezione Civile. Un corpo con un cervello legislativo e tante braccia sociali. In alto il quartiere generale del pubblico agire amministrativo, in basso il mosaico delle individuali virtù sociali: il soccorso, la generosità, il farsi prossimo organizzati fino a diventare servizio fondamentale di una nazione.

Inventare, cioè scoprire il nuovo. Come non pensare anche alla poesia, alla letteratura. Ma non ci fu tempo per rime e prose la notte del 6 maggio 1976 quando la terra tremò in Friuli e quella che dapprima era stata comunicata come «una scossetta» si rivelò una delle più impressionanti tragedie della storia recente. Cadaveri e rovine a Nord, nel lembo estremo dello Stivale. Il conto definitivo: quarantacinque paesi rasi al suolo, mille morti, più di centomila sfollati, diciottomila case distrutte, danni per 4.500 miliardi di lire. Peggio a Sud il 23 novembre del 1980 per il terremoto che squassò l’Irpinia: 2914 bare, 8800 feriti, 280mila sfollati.

Udine 1976, Avellino 1980: un giorno gli storici racconteranno che tra queste due date l’Italia cominciò a capire sulla pelle di tanti morti; a reagire, grazie all’eroismo dei sopravvissuti; a cambiare per le intuizioni di un visionario con il sorriso sulle labbra e il tormento nell’anima. Un proconsole cui lo Stato, preso alla sprovvista, affidava il compito di inventare soccorsi efficienti e coordinati da un generale, non a caso ammiratore di De Gaulle. Un uomo scelto senza che nessuno lo potesse invidiare.

Zamberletti sapeva di guidare uno sterminato esercito che si muoveva in ordine sparso, con comandi separati per legge. Ma ha avuto sempre la forza di dare a tutti la spinta necessaria. Nei giorni delle grida d’aiuto che uscivano da sotto un cumulo di macerie e calcinacci, diceva: «Ho paura che la serenità mi si spenga sul volto davanti alle mostruose difficoltà da affrontare». E quando tutto finiva confessava: «Non è bello diventare famosi per le disgrazie degli altri. Lo ricordavo a me stesso tutte le volte che mi intervistavano definendomi Mister Soccorso o Dittatore dei terremoti. O quando, visitando i centri più colpiti, gli abitanti non volevano saperne di trasferirsi. Hai voglia di controbattere: i pendolari ci sono in tutta Italia. Avevano ragione loro: profughi, sfollati, senza tetto».

Ecco: il commissario straordinario, l’uomo messo alla prova dalla crudeltà della natura e dalla fiducia dello Stato ha dovuto fare i conti con queste cose. Col temperamento delle popolazioni, con le loro abitudini sconvolte. Ma ha avuto un vantaggio in anni nei quali la parola sovranismo non era nella mente di nessuno: poteri speciali conquistati a fatica solo dopo la seconda fase in Friuli. Durante la prima ne era privo.

Zamberletti era il capo delle forze armate, delle autorità civili, degli enti locali, dei prefetti, delle organizzazioni sanitarie e degli organismi sociali («di fatto ero il capo supremo, avrei potuto ordinare anche esecuzioni capitali», scherzava). Rappresentava la Repubblica in tutto e per tutto. Era il condottiero cinquecentesco che a 43 anni già minacciati dal fumo di 60 sigarette giornaliere sperimentava l’assolutismo in un’Italia già per suo conto terremotata sul piano economico e sociale. Tutto ciò nell’epoca dello stragismo nero, del terrorismo rosso, del rapimento di Aldo Moro.

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