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Stili di Vita

LEGGEREZZA

VALERIO CRUGNOLA - 19/02/2021

fallimentoNel giro di pochi anni lo stigma sociale che un tempo accompagnava il termine fallimento quale inteso nel lessico economico e giuridico, si è di fatto dissolto. Da sinonimo di insuccesso imprenditoriale dovuto a deficit strategici nell’affrontare la competizione, a eventi imprevedibili, a incapacità gestionali o a incaute esposizioni a rischi troppo estesi, il fallimento si è trasformato in una scelta strategica fruttifera per il nuovo contesto sistemico.

L’ordinamento economico non teme più e anzi contempla il fallimento come possibilità; lo suscita, lo auspica, lo cerca come elemento di selezione, aggiustamento e stabilizzazione. In alcuni casi si giunge a vedere nel fallimento una strategia che conferma la bontà del sistema, una tappa salutare per il mercato e non l’interruzione di un percorso sterile. Da sconfitta irreversibile il fallimento diviene un’opportunità di rigenerazione: qualcosa che apre prospettive anziché deporre una lastra tombale, un lasciare per ricominciare anziché un chiudere per sopravvivere arrabattandosi. Il fallimento si adorna così di un’inedita aura che affida al mercato il ruolo di giudice unico del bene e del male. In Adam Smith l’auspicato equilibrio tra mercato e vita buona, sempre imperfetto e precario, era un risultato preterintenzionale; ora viene venduto come un disegno razionale che rende superfluo ogni agire eticamente orientato.

È cambiato, sullo sfondo, lo stesso concetto di rischio. Da fattore imponderabile ma non del tutto aleatorio, perché pur sempre valutabile nei suoi margini mediani, il rischio è divenuto un passaggio programmabile, una mossa ponderata che viene messa a bilancio come elemento strategico necessario e “costruttivo”. Il rischio dismette i panni dell’imprudenza e si trasforma in un fattore creativo indispensabile all’innovazione. Il rischio è parte del gioco: dobbiamo correrlo se vogliamo “provare a vincere la partita”. La posta si alza. A propria volta l’innovazione assurge a valore in sé, applicabile ad ogni contesto dell’agire umano. La sapienzialità elementare che ha impregnato per millenni il senso comune, sembra dileguare dentro l’affermarsi della hegeliana “immane potenza del negativo”, di quella mediazione tra continuità e discontinuità che genera l’altro da sé: il “nuovo”. L’obsolescenza della logica di agire con prudenza contenendo i rischi entro orizzonti compatibili con il valore in sé della conservazione, è stata rapida. Chi vuole approfondire legga, in merito, il volume di Appadurai e Alexander, Fallimento, Cortina 2020.

Il pensiero economico è un territorio impregnato di ideologia che si maschera come scienza e si ammanta di oggettività. Questa conversione a gomito nell’ambito delle ideologie economiche ha riposizionato anche il concetto di fallimento nella dimensione esistenziale. Ma in questo ambito, nonostante ogni tentativo opposto, il peso emotivo non è amovibile. Sdoganare e riabilitare un’idea non significa renderla meno gravosa alla prova dei vissuti. Il fallimento, e in genere l’insuccesso presso il proprio scenario pubblico, vasto o limitato che sia, e nel proprio specchio interiore, molteplice o compatto che sia, resta sinonimo di infelicità e depressione: una perdita che si può rappezzare ma non rimediare. Il tempo del vissuto mantiene una sua durezza e non ammette ritorno.

Mentre l’ordinamento economico si manifesta come inaffondabile, al punto da espungere dall’idea di fallimento la metafora del naufragio, il posizionamento dei vissuti mantiene intatta questa metafora: il fallimento equivale a un naufragio. Quasi mai – sottintende questo sentire – il naufrago possiede il coraggio, l’intraprendenza, l’inventiva e la buona sorte di Robinson per poter ricostruire un mondo daccapo con i pochi mezzi a disposizione, in modo da fare del mondo reale perduto il modello ideale da imitare nel mondo casualmente trovato.

Tanto più oggi il cosiddetto fallimento esistenziale diventa un macigno da nascondere quanto più l’ordinamento sociale è orientato al successo dei singoli davanti a una platea di testimoni e di spettatori. L’anonimato è già di per sé un insuccesso, un’inadempienza di sé, e vivere nascostamente è una sorta di abiura: una rinuncia e una sottrazione. La moneta corrente che squalifica la persona “mancata” si manifesta in una verbosa faciloneria circa i “riusciti”. “Quelli che ce l’hanno fatta” si narrano come una volontà ferrea, tenace, determinata e coerente fino all’ipertrofia che ha saputo vincere ogni ostacolo. Basta “crederci” e insistere. La competizione con se stessi per prevalere sugli altri diventa un doping intrapsichico che porta assuefazione e ci consegna impreparati alla caduta, al senso del limite, al riconoscimento della nostra condivisa modestia. Il mestiere di spacciatore che ci procura la roba è in crescita: il ricorso a un mental coach (!) che incita da fuori e minimizza gli incidenti di percorso conferma la rappresentazione mitobiografica di sé come onnipotenti.

Una vita dolorosa, grigia e senza gioia ci spaventa. Non siamo preparati a prevenirla e ad affrontarla. Cercheremo semmai di nasconderla o dissimularla. Ne alleggeriremo il peso con i feticci del consumo e i riti cangianti e modaioli della società analfabeta e bovinizzata di massa. Ai molti che patiscono o si sentono schiacciati dalla vita, l’ordinamento sociale sa offrire solo anestetici e placebo. L’economia gode di un’impudicizia che ancora gli individui non hanno. Il fallimento sociale segnala una mancanza che il singolo vive come più grave proprio perché il vulnus si manifesta ed è più difficile da eludere. Tutti gli spettatori e attori vedono il mancato raggiungimento degli obiettivi che abbiamo sbandierato come l’intenzione di un Ego pubblico svettante su un prato di erbavoglio.

Abbiamo prosciugato e impoverito le possibilità di felicità e di gioia riducendole a un compimento di sé nel “successo” che conferisce prestigio, fama, gloria e danaro. Il successo è una sorta di giudizio di Dio emesso nello spettacolo dell’arena pubblica. Non osiamo contrastare l’amarezza dell’insuccesso risalendo alla fonte per gettare alle ortiche l’ideologia che la genera e per liberarci dalla coazione ad avere obiettivi di riuscita che non sanno più contentarsi di una vita semplice e anonima ma serena e ben spesa. L’amarezza si allevia solo con i dolcificanti artificiali della menzogna, della millanteria, della diversione (per lo più verso il rancore) e di ogni altro mezzo che consente di strappare un’assoluzione nel verdetto che ci attendiamo dalla conferma sociale: un feedback che prosciuga ogni interiorità. Ma la sfera psichica più intima e inconfessabile ci chiederà ugualmente il conto con la più forte e più comune patologia di occultamento che ci affligge: la depressione.

Il saggio, al contrario, non cerca conferma di sé nel “senso”, e nel conseguente assenso che gli viene conferito dal “mondo”. Si sottrae, non architetta una vita come progetto da adempiere per raggiungere il compimento del senso. Non affida il suo tempo alla competizione, all’ingaggio, ai simulacri del combattimento. Il saggio depone la pretenziosità e apprezza la finitezza, la debolezza, la caducità e persino la dissipazione. Al raggiungimento di cose, risultati, prestazioni e compiti antepone la gioia, un istantaneo stato di grazia, una relazione pacifica con la possibilità sorgiva e sorprendente. Disgrega la bolla emotiva che circonda gli “Obiettivi” e il paesaggio scenico in cui dispone la continuità del suo esistere. Vive sotto traccia. Ricerca un piacere sottile, impercettibile da terzi ma ineguagliabile nell’aerea leggerezza dell’euforia che lo accompagna.

Un successo senza gioia o un fallimento infelicitante non valgono quel fallimento gioioso che testimonia di una vita ben spesa e ben goduta. come molti anni fa mi ha insegnato Roberto in una sera memorabile di discussione tra amici.

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