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Cultura

ECO POLIEDRICO

RENATA BALLERIO - 26/02/2021

ecoImmaginiamo un quiz. Qual è il libro scritto nel 1994, in inglese, e tradotto in italiano dal suo autore, con traduzioni in tantissime lingue, come quella cinese nel 2000, arabo, turco, tedesco, estone etc etc.? Se aggiungiamo che l’autore, scrittore italiano, è di fama mondiale, uomo di vastissima cultura, quasi sicuramente troviamo la risposta e pensiamo ad Umberto Eco.

Il libro da ricordare è – per corretta informazione – Sei passeggiate nei boschi narrativi, pubblicato prima dalla Harvard University Press e successivamente da Bompiani.

Forse non il libro più noto di Eco, a cui molti e in molti modi hanno reso omaggio a cinque anni dalla sua morte, avvenuta il 19 febbraio 2016. A buon diritto può, però, rappresentare il valore dello scrittore, semiologo-filosofo, osservatore e interprete della società e di tutte le sue forme di comunicazione. Quelle pagine testimoniano la capacità di Eco di non mettere false barriere tra cultura alta e quella più popolare. Six Walks in The Fictional Woods sono le lezioni tenute da Eco all’università americana. Quasi come un moderno Virgilio accompagna il lettore, non solo americano o universitario ma tutti i lettori, nel mondo della narrativa, senza classifiche snobistiche. Analizza e racconta Alessandro Manzoni e Carolina Invernizio, I tre moschettieri e Italo Calvino, Edgard Allan Poe e Achille Campanile. E permette al lettore di trasformarsi, senza imprigionarlo in un lettore modello. D’altra parte proprio Eco aveva parlato dell’opera aperta, in cui il lettore partecipa per continuare a costruire quanto scritto. Grande valore culturale e -potremmo dire – democratico. E lo fa con un’altra dote, che lo rende unico: l’ironia. Non è un caso che analizzò con gli strumenti della cultura le varie forme di comicità, dalla satira all’ironia, per dirci (o se si preferisce, darci un insegnamento), cioè che una risata può salvarci, svelandoci spesso le menzogne di certi discorsi.

E per affrontare questo insegnamento, di cui avremmo tanto bisogno, dovremmo avere l’abilità di scrittura e di analisi che Eco ebbe nelle famose bustine di Minerva, pubblicate su L’Espresso dal 1985 fino a pochi mesi prima della sua morte. Già dal titolo della rubrica, che faceva riferimento alle confezioni dei fiammiferi, si coglie un’altra caratteristica: si può dire molto anche in una pagina, in una dimensione ridotta, come la scatoletta di fiammiferi, e si possono utilizzare tutti i mezzi comunicativi.

Insomma Umberto Eco, vero maestro e professore, ebbe la non comune intelligenza di saper essere anche non professorale. A dire il vero questo dovrebbe essere il vero compito della cultura. E grande e immensa fu la sua cultura, basti ricordare la sua biblioteca. Proprio nel mese di febbraio è stato ufficializzato come per 90 anni l’Alma Mater di Bologna avrà in comodato gratuito, grazie al dono degli eredi di Eco, i suoi 35 mila volumi e l’archivio, mentre i 1200 volumi antichi, con 36 incunaboli numerosi testi scritti dal 1500 e il 1700 andranno alla Braidense di Milano. E non sarà un caso che nel suo testamento, in modo provocatorio e spiazzante, ordinò di non parlare di lui in convegni per dieci anni, dopo la sua morte. Il che vorrebbe dire, forse, “parlate di me, quando mi conoscerete bene”. Proprio per questo varrebbe la pena di applicare per la sua autobiografia intellettuale le attualissime formule delle sue celebri “interviste impossibili”. Oltre tutto troveremmo tante risposte possibili. Qualche esempio? Il computer non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide, anzi, è una macchina stupida che funziona solo nelle mani delle persone intelligenti. E lo disse lui che capì con largo anticipo, quasi profeticamente, la rivoluzione informatica.

Oppure domande con relative risposte sulla disputa francescana con il papa circa la povertà della Chiesa, come si coglie ne Il nome della Rosa. E che dire sul suo aver capito il rischio di un fascismo eterno?

Dobbiamo ammettere che ci manca Umberto Eco, con la sua cultura e la sua ironia. Lui che ricordò quanto fosse inutile l’abuso di citazioni, scrisse con giusta provocazione: Mi scuso per la citazione abusata, sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi. E lo fece per una lezione intitolata: Il primo dovere degli intellettuali: stare zitti quando non servono a nulla. Lezione da imparare.

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