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Attualità

UMILI, UTILI

FEDERICO VISCONTI - 05/03/2021

napoleonechurchillAttacco da Settimana Enigmistica, alla Bartezzaghi de noantri: “differenziano pregresso da progresso”. Due spazi, facili da riempire: eo. Tutto qui, due semplici vocali che spalancano un mondo.

Il mondo del pregresso è un po’ come il colesterolo, c’è quello buono e quello cattivo. Per mettere ordine, è bene precisare che buono o cattivo non sono espressione del “uno vale uno” ma della funzionalità al bene dell’istituzione di cui si sta discutendo. Parlando di un’azienda (ma l’esercizio potrebbe essere opportunamente adattato ad un ospedale, una scuola, un teatro, un Rotary Club…), la questione di fondo è se e come i modelli e le competenze in essere sono quelle che servono per competere sul mercato, per affrontare la concorrenza, per conseguire performance coerenti con la missione istituzionale. In parole povere, se e come la struttura aziendale ha in pancia i presupposti gestionali per portare a casa la pagnotta dei risultati negli anni a venire.

Sic stantibus rebus, il pregresso buono (il brand, il capitale relazionale, il know-how in capo ad alcune persone…) è già di per sé progresso. Il vero problema si manifesta quando, davanti a crisi/inefficienze/inerzie conclamate, salta fuori il teorema del “…ma questo fa parte del pregresso”. E quindi?!?! Prendiamo un possibile repertorio di patologie, costruite ad arte tra il serio e il faceto: “Si è sempre fatto così, i problemi sono esterni all’azienda… se avessimo un altro Governo!”; “Quella persona è inadeguata ma non possiamo mandarla via… ha in mano scheletri degni di Sindona”; “Se premiamo quel neoassunto, come la mettiamo con gli altri? Sono con noi da tempo, sono sopra di tre livelli contrattuali e hanno auto e ficus aziendali!”… Aneddotica a parte, la sostanza è che il teorema di cui sopra è privo di qualsiasi fondamento manageriale: le aziende non possono permettersi di alimentare posizioni di rendita, di coprire bad practices, di cercare alibi, di sprecare tempo e risorse,…. Nemmeno quando vanno bene.

Una governance responsabile è vaccinata alla “e”. Una governance responsabile ha la “o” nel proprio DNA. Per i suoi componenti, “far parte del progresso” significa lavorare in profondità sull’idea di sviluppo della propria istituzione, sui suoi obiettivi e sulle scelte strategiche da adottare per realizzarli. E significa anche presidiare con vigore l’execution, risorsa scarsa in un Paese storicamente impegnato a mandare palle in tribuna. Le leve da muovere sono quelle dei manuali di organizzazione (job rotation, innesto di nuove competenze, formazione, sistemi premianti, comunicazione interna…) e si tratta solo di applicarle, agendo su due propulsori. Il primo è rappresentato dalla cultura e dai valori istituzionali, che devono esprimere tensione alla crescita e all’apprendimento, apertura alla critica e alla innovazione. Il secondo riguarda la gestione del potere, che deve essere interpretato con spirito di servizio. Napoleone Bonaparte, che della materia ben si intendeva, diceva che “un trono è solo un pezzo di legno coperto di velluto”. Winston Churchill, commentando la causa dei molti mali che affliggevano la società, affermava che “il problema consiste nel fatto che gli uomini non vogliono essere utili, ma importanti”. Chi è in posizione di comando, è chiamato a essere umile e utile. Gira e rigira, si torna alla Settimana Enigmistica: una “m” e una “t”, due semplici consonanti che dettano le condizioni per affrontare a testa alta e con la schiena dritta il post Covid.

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