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Chiesa

CONCILIAZIONE

EDOARDO ZIN - 19/03/2021

L’ulivo all’ingresso della Cappella di Bose

L’ulivo all’ingresso della Cappella di Bose

Desidererei che chi non conosce l’esperienza di Bose si astenesse da qualsiasi commento e giudizio. Chi non è andato a Bose non può dare alcun parere. Bose non si può conoscere se non la si vive!” – così ho scritto su Facebook in risposta a giudizi incauti o avventati. Anche chi va a Bose, magari in comitive parrocchiali, solo per guardare, non può capire Bose. Bose è esperienza di Chiesa.

Si parla di “generazione di Bose”, cioè di quella generazione di donne e di uomini che non vedono nel Concilio Vaticano II solo una riforma delle istituzioni della Chiesa, ma una dinamica, un nuovo rapporto con la modernità, un rinnovamento della vita cristiana in cui Tradizione e profezia si nutrono reciprocamente.

Con il Concilio, la Chiesa si riconciliava con il mondo, ma non era che l’inizio. Ci voleva una ripresa di vitalità evangelica. Bisognava che il cristiano smettesse di essere assillato dal desiderio di farsi accettare, richiudendosi in un dogmatismo angusto. Sorsero i “gruppi di base”: molti “permissivisti”, che rileggevano la Tradizione alla luce del Concilio e ne volevano mantenere la forza propulsiva, altri “integristi” brutali, ottusi, spesso intolleranti che tentavano di imbalsamare e cristallizzare i testi conciliari. Entrambi mettevano in discussione idee o credenze, categorie di persone, un certo regime. Pochi assumevano la postura dell’umiltà del servo che lava i piedi ai suoi discepoli.

Quando un giovane poco più che ventenne si ritirò – l’8 dicembre 1965, giornata di chiusura del Vaticano II– in un grappolo di case abbandonate, nella Serra di Ivrea, sprovviste di acqua, luce e riscaldamento per vivere una vita radicata totalmente nel Vangelo, pregando e studiando la Parola di Dio, nessuno poteva immaginare che quel granellino di senape sarebbe diventato un albero frondoso. Dopo tre anni, a quella porta bussarono un pastore della chiesa riformata svizzera e una giovane donna di Ivrea che desideravano vivere una vita cenobitica all’insegna del celibato. Ad essi col tempo si aggregarono altre donne e uomini, desiderosi di vivere assieme, sostenendosi col proprio lavoro o professione, ascoltando Dio che parla attraverso la sua Parola, spezzando il Pane e distribuendolo a quanti, affamati di Verità, allungavano la mano, come fanno i mendicanti, accogliendo nella casa chiunque, credente, cattolico e non, o agnostico, bussasse alla loro porta desideroso di approfondire, nel silenzio, la sua fede o di dare un senso alla sua vita.

Nacque così la comunità monastica ecumenica di Bose. Essa non è un monastero, anche se affonda le sue radici nel monachesimo orientale e occidentale, in Antonio del deserto, in Benedetto. Ci fu uno scatenamento di disapprovazioni da parte del vescovo locale, ma l’arcivescovo di Torino, padre Pellegrino, studioso del cristianesimo delle origini, che aveva intuito il valore di quella esperienza, tutelò con la sua paternità, quei cristiani. Ci furono potenze civili maligne che perseguitarono quel gruppo di “fanatici”, pericolosi personaggi che volevano sovvertire l’ordine politico.

Niente di tutto questo. Essi, vivendo come Gesù, vogliono umanizzare una religione fatta solo di pie pratiche. Non desiderano vivere un “sistema religioso” fatto di pesanti comandi e di innumerevoli verità da credere. Vogliono manifestare l’immagine di un Dio che si crede lontano, onnipotente, attraverso l’umanità di Gesù, Dio fattosi uomo e inviato dal Padre per salvare l’uomo, immagine di Dio stesso e che solo nel peccato perde la sua rassomiglianza con Dio.

Bose si apre così ai credenti interrogati nel profondo del loro essere, ai non credenti che si scrutano per dare un significato alla loro vita, alle cui sofferte domande chiedono una risposta non per risolvere le loro angosce, ma per potenziare la loro umanità. Per molti, Bose è lo spazio inedito per afferrare l’occasione della fede, per altri un modo per cogliere i segni dei tempi, per approfondirli e viverli in compagnia con altri uomini. Bose è il luogo per eccellenza in cui l’ascolto, la riflessione interiore, lo studio della Parola di Dio si manifesta in tutta la sua potenza.

A Bose, i fratelli e le sorelle non predicano la loro parola, ma annunciano quella di Dio. È dall’ascolto di questa Parola che Dio parla all’uomo. Egli cerca attenzione alle potenzialità umane, ma anche alle sue ferite e sofferenze, alle sue problematicità, alle sue gioie e dolori. La risposta dell’uomo che ascolta è un impegno per migliorare se stesso e il mondo. Per questa risposta si eleva la preghiera personale e comunitaria. A Bose non c’è nulla di rituale, di preghiera depauperata dalle emozioni, di ricerca dello straordinario. L’invocazione tende a non persuadere Dio delle necessità umane, ma a portare l’uomo a compiere la sua volontà. È soprattutto attraverso il canto dei salmi che a Bose si chiede a Dio d’intervenire per esaudire le necessità, ma si lascia a Lui la libertà di risposta e di intervento.

A Bose si manifesta l’umanità di Gesù attraverso la liturgia. Non quella formalistica e spettacolare, ma quella seria, semplice e tuttavia nobile, sobria e tuttavia solenne, che attraverso i simboli, i gesti, i canti, i profumi dei fiori e dell’incenso, il lume delle candele che ardono davanti alle icone valorizza tutti i sensi dell’uomo e con l’acqua e il fuoco chiama tutto il cosmo a partecipare al medesimo mistero, alla stessa tavola, assieme ai cristiani riuniti in assemblea. Sono essi che partecipano al Mistero e lo rivelano con il loro stare insieme, dove tutti vengono accolti, ma soprattutto il povero viene riconosciuto e perfino onorato. Liturgia semplice ma non sciatta, bella perché invita ad aprire gli orecchi alla Parola di Dio e a spalancare gli occhi sugli altri perché riflette la bellezza di Dio alla quale ogni uomo è chiamato. È questa partecipazione all’Eucarestia che dimostra che la Chiesa non è un club elitario, una congregazione di pie donne, un’associazione dove si sceglie in base alle relazioni affettive o a simpatie umane. È contro questa liturgia che si è levato ultimamente un coro di lamenti da parte di cristiani che si ergono a difensori dell’“occidente cristiano” e da parte di molti non credenti che usano la Chiesa per difendere i loro privilegi.

Da quasi un anno questa comunità monastica ecumenica vive le tensioni della divisione. C’è chi pretende che il fondatore della comunità sia esiliato e chi, con la dignità del padre e la tunica di monaco, chiede di morire in casa sua. La stampa si è sbizzarrita a schierarsi a favore di una o dell’altra parte. Il mondo cattolico segue la vicenda spiando sulle pagine web. Noi non possiamo giudicare perché non conosciamo le vere ragioni dell’allontanamento (a proposito: dov’è la tanta sbandierata ”sinodalità”?), ma ardentemente speriamo che si ponga fine a questa vicenda tralasciando il codice, le prescrizioni autoritarie affisse sulla bacheca della comunità, i percorsi terapeutici di “oggettivazione del carisma”, ma aprendo il Vangelo alla pagina in cui si chiede al fariseo di riconciliarsi con il pubblicano prima di presentarsi davanti al Signore o di donare la pace anche a chi non la vuole ricevere.

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