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Libri

TONFI E TRIONFI

FLAVIO VANETTI - 19/03/2021

tonfi“Tonfi e trionfi – Lo sport come sarebbe potuto andare e com’è andato” è il nuovo libro – edito da Minerva con prefazione di Paolo Francia e introduzione di Aldo Cazzullo – scritto da Flavio Vanetti, giornalista prima alla Gazzetta dello Sport e poi al Corriere della Sera. Ecco, per gentile concessione, il testo d’apertura dell’autore e un capitolo.

Una circostanza particolare – la pulizia degli archivi del portatile da lavoro – e un flash che mi ha ricondotto a Guido Morselli, grande scrittore di origini modenesi ma vissuto, e purtroppo morto suicida, nella mia stessa città, Varese. Morselli nel romanzo “Contro-passato prossimo” immaginò che la Prima Guerra Mondiale non fosse stata vinta dalle potenze dell’Intesa, e dunque anche dall’Italia, ma da quelle degli Imperi Centrali. Una storia al contrario, insomma. È stata un’idea geniale per sviluppare forse il racconto più paradossale e ragionato di un autore troppo sottovalutato.

Io non sono né Morselli né mi sono mai occupato di eventi del passato. In linea di massima ho raccontato e racconto lo sport. Però, complice quell’opera di sistemazione del pc, ho scoperto che in qualche modo pure io posso narrare un contro-passato prossimo. Sono infatti emersi dai meandri della memoria del computer parecchi dei cosiddetti “pezzi di copertura”, ovvero gli articoli che noi giornalisti siamo tenuti a preparare per cautelarci nel caso, ad esempio, una partita finisca molto tardi e non ci sia l’opportunità di cambiare rapidamente quanto appena scritto, oppure quando, in un grande appuntamento, si deve essere pronti a scrivere tutto e il suo contrario.

Lo sport è una straordinaria palestra perché costringe alla rapidità e alla sintesi. Ma è anche maledettamente tiranno e mette chi scrive di fronte a infinite trappole, più pericolose quando si tratta di avvenimenti serali: l’andamento di un incontro che cambia e che costringe a ribaltare in fretta e furia un testo che sarebbe stato solo da completare; il rischio dei tempi supplementari; un banalissimo guasto tecnico (quante volte io e tanti colleghi abbiamo imprecato per un cronometro rotto, per un tabellone mandato in frantumi o per un black out in un palasport?).

Spesso e volentieri, soprattutto oggi che i giornali hanno anticipato le chiusure, dobbiamo anche mandare veri e propri articoli completi, usando un tema generico (in gergo si chiamano “pezzi freddi”), allo scopo di occupare lo spazio destinato a quel fatto nel caso non si riesca ad arrivare con il servizio “reale”. E poi, se un Mondiale di F1, tanto per citare un esempio, è in bilico tra due o più piloti, è inevitabile essere pronti con i “ritratti” dei possibili vincitori: almeno ti porti avanti con il lavoro.

Il computer mi ha così restituito parecchio di questo lavoro oscuro, che non ha mai visto la luce perché ovviamente alla fine è stata solo una versione che è stata sdoganata sulle pagine del quotidiano. Ecco allora il pensiero alla scelta geniale di Morselli: e se fosse andata in un altro modo? Che cosa sarebbe stato detto se le sliding doors si fossero aperte in un altro senso? La risposta viene proprio dai “pezzi di copertura” che ho scritto e che giocoforza sono rimasti lì, nel limbo. Ho fatto una selezione tra quanto avevo nella memoria digitale e ho scelto alcuni degli eventi più importanti che ho seguito, dai Giochi olimpici, ai Mondiali, agli Europei, ai campionati nazionali o ad avvenimenti che fanno storia a parte come le finali Nba o la famosa Coppa del Mondo 1995 di rugby, quella celebrata anche al cinema con il film “Invictus”.

Mi è sembrato divertente proporre lo sport così come non è stato e come avrebbe potuto essere. Ed è stato anche un modo per ricordare, stavolta sorridendo, lo stress e le sofferenze dei giornalisti quando devono lavorare “sul tamburo”. Il senso di quello che dico lo racchiude quanto ho vissuto l’ultimo giorno dei Giochi invernali 2010, quelli dell’oro di Giuliano Razzoli nello slalom. Dopo la prima manche era già in testa e Manfred Moelgg era quinto ad un soffio dal podio virtuale. Posto che la discesa della verità si sarebbe conclusa alle 23.30 italiane, dunque proprio sul filo della chiusura delle pagine sportive del Corriere della Sera, non ho avuto scelta: nelle due ore e poco più tra prima e seconda manche ho dovuto preparare otto versioni diverse, una per ogni possibile epilogo della gara, da Razzoli che vince e Moelgg che va a sua volta sul podio, a Razzoli che vince e Moelgg che non va a medaglia (è quanto è accaduto), ai due che rimangono a secco e via di questo passo. In più, per la ribattuta, è stata poi approntata una nona versione con il parlato del neo-olimpionico. Troverete anche questa, assieme a una delle opzioni mai uscite. Lo stesso procedimento l’ho poi sviluppato per tutti gli altri episodi: vi proporrò l’articolo uscito e quello rimasto nel pc. E in qualche caso nei pezzi non usciti incontrerete dei puntini di interruzione o una parentesi con un paio di versioni. Era per prepararsi a ogni possibile soluzione. A gara conclusa avrei scelto quale delle strade del bivio imboccare.

SCENARIO

L’impresa della Goggia, campionessa con le spalle al muro

Il superG olimpico era andato male: solo undicesima, dopo un grave errore che non era stato recuperabile. Forse era colpa del 17 presente nella data: 17 febbraio 2018. O forse no, quel dettaglio superstizioso proprio non c’entrava… C’entrava semmai un’atleta molto attesa sulle nevi di Jeongseon, sede delle gare di velocità dello sci durante i Giochi di Pyeongchang, e probabilmente condizionata dal desiderio di sentirsi all’altezza della situazione. Così Sofia Goggia quattro giorni dopo quel flop aveva sulle spalle un bel fardello: inseguire una medaglia, sapendo che fallire una seconda volta sarebbe stato un fiasco (soprattutto nella visione italiana dello sport, secondo la quale se vinci sei un eroe e se perdi meriti solo pernacchie).

Sofia quella mattina fu perfetta. Scelse il pettorale numero 5 e rifilò subito una bella bastonata alla leader provvisoria, Tina Weirather. Ma con il numero 7 scendeva Lindsey Vonn: non c’era dunque nemmeno il tempo di respirare. La fuoriclasse statunitense, a sua volta reduce da una delusione in supergigante (fu sesta a pari merito con Federica Brignone e lo scarto, appena 38 centesimi, suonava beffardo), fece uno sforzo probabilmente al limite delle sue possibilità, essendo nella parte finale della sua straordinaria carriera: ma riuscì ad arrivare solo a 47 centesimi da Sofia, un tempo che non l’avrebbe nemmeno portata alla medaglia d’argento. Con il numero 19, infatti, scese la norvegese Ragnhild Mowinckel che la scavalcò e fece tremare addirittura la Goggia. La nostra campionessa diventò la prima azzurra olimpionica della discesa per nove centesimi di scarto.

Per Sofia e per tutti i tifosi fu una liberazione. Ma noi giornalisti, avvocati del diavolo, avevamo anche dovuto mettere in conto che quella giornata non finisse in gloria.

POTEVA ANDARE COSI’

Sofia, la missione incompiuta

Missione incompiuta. Anzi, malamente franata. Sofia Goggia rimane lontana dalle medaglie anche nella discesa e, a meno di miracoli nello slalom gigante – la disciplina che l’ha lanciata e resa popolare, ma adesso anche quella che per varie ragioni la vede meno competitiva -, la sua partecipazione ai Giochi 2018 sarà caratterizzata dal mouriniano “zero tituli”. Nulla, sia chiaro, era dato per certo e per garantito, ma l’impressione che Sofia potesse fare bene, anzi molto bene (traduzione: vincere l’oro, o in subordine una medaglia minore), era generalizzata.

C’è così un senso di amarezza e di frustrazione ora che la pista di Jeongseon ha bruciato anche la seconda carta d’attacco della ragazza di Bergamo, dopo che il superG era stato un mix di sensazioni forti e di delusioni: la Goggia aveva dimostrato di avere il passo per arrivare al traguardo da regina, ma una serie di sbavature e un errore più grave degli altri (e soprattutto non rimediabile) hanno impedito la quadratura del cerchio.

La tentazione, adesso, è di buttare via il neonato e l’acqua sporca, ma questo sarebbe un esercizio da tifoso di bassa lega, roba da bar sport. Prima considerazione: ci sono, nella storia dello sport, un sacco di grandi personaggi che hanno vinto molto ma anche perso tanto. O che addirittura non sono mai riusciti a raggiungere un certo traguardo. Ma non per questo il loro valore è da sminuire. Sofia Goggia deve quindi continuare con serenità e determinazione la sua carriera: il suo talento non può essere messo in discussione e lei rimane una potenziale campionessa olimpica e/o mondiale.

Però, dato che ogni sconfitta deve servire a qualcosa, il k.o. coreano va analizzato, quindi metabolizzato e infine superato da un cambio di passo. La prima riflessione, infatti, è che Sofia sia stata tradita da una foga eccessiva e dall’antico vizio di cercare la soluzione “o la va o la spacca”. Fatto salvo il principio che solo chi sa osare può arrivare in alto, c’è anche un “modus” per trovare un punto di equilibrio tra aggressività agonistica e saggezza tattica: probabilmente questo è ancora quello che l’azzurra deve mettere a fuoco, è il tassello mancante di un mosaico che potrebbe diventare bellissimo.

In questo momento non certo facile non mancherà nemmeno chi farà del sarcasmo sull’occasione sprecata, sostenendo magari che si è esagerato nel dare credito a Sofia. Se così fosse, saremmo di fronte a piccinerie di bassa tacca. Nello sport – ricordava un grande personaggio quale Julio Velasco – deve esistere prima di tutto la cultura della sconfitta. Prevede varie regole, ma la più importante sta nella consapevolezza che un errore non è una condanna, ma semmai uno stimolo per la ripartenza. Sofia Goggia ha tutto, talento, coraggio e personalità, per trasformare un flop in un’occasione per arrivare a qualcosa di segno opposto.

INVECE È ANDATA COSI’

Finalmente libera

Goggia, dagli infortuni al titolo olimpico

La gara perfetta. La bergamasca batte la Mowinckel e la Vonn e piange: “Ho meritato. È un oro per sempre”

PYEONGCHANG Questa è la storia della «Befanona» che diventa regina olimpica della discesa, della “pasticciona che si trasforma in samurai”, della campionessa di sci e di autoironia che quando si inginocchia per baciare la neve non si accorge di avere i fotografi alle spalle “e loro, anziché il bacio, avranno visto un ippopotamino che si inchinava”.

Questa è la storia di Sofia Goggia, colei che è rinata da incidenti spaventosi, la prima italiana olimpionica della libera, il secondo atleta azzurro a riuscirci nella disciplina, 56 anni dopo Zeno Colò. “Non avevo pressione, dopo la sconfitta in superG. Sapevo che chi mi ama mi avrebbe continuato a voler bene: questo mi ha dato sicurezza, la bambina che sulle nevi di Foppolo sognava di vincere ai Giochi ce l’ha fatta”. Sul podio nel parterre è scappata la lacrimuccia, alla sera a Medal Plaza, premiata dal presidente del Cio, è montata ancora di più l’emozione: “È un oro meritato. Ed è per sempre”.

La gara perfetta, usando gli sci di Peter Fill. Accorta in alto, dove non si decideva nulla. All’attacco dal secondo intertempo, infernale nella sequenza della seconda «parabolica» che l’ha proiettata sul traguardo in 1’39’’22, i numeri del suo tempo adattati a una combinazione magica. Battute tutte: da Tina Weirather, il primo riferimento importante per “Sofi”, all’adorata nemica Lindsey Vonn, abbracciata avvolgendola con la bandiera italiana in un simbolico passaggio di consegne che attende sviluppi a metà marzo nella sfida a due per la Coppa del mondo della discesa, a Ragnhild Mowinckel, la norvegese che già aveva beffato Federica Brignone negandole l’argento e che ha tentato un nuovo scippo sul filo dei centesimi. Nove sono stati di troppo: “Sono rimasta paralizzata finché non ha tagliato il traguardo”.

C’erano, ad aiutare Sofia, l’hashtag della Befanona e l’amuleto messo nella sacca degli indumenti. Befanona? “Sì, a Kranjska Gora sono tornata sul podio in gigante dopo lungo tempo. Era il 6 gennaio. Ho chiesto all’addetto stampa della Fisi: sarà stata la Befana? Sugli account social federali per postare bisognava fare riferimento allo slogan ‘Io sto con la Befanona’. Hanno scritto a centinaia, perfino i bambini di un asilo”. Invece il tappo era della bottiglia di Lambrusco (“Che non ho bevuto!”) regalatagli dalla moglie dell’ambasciatore coreano l’anno scorso quando Sofia s’impose in discesa e in superG. “Mi disse di restituirglielo dopo la vittoria ai Giochi”. Sofia l’aveva messo sul comodino di casa. L’ha preso prima di andare a Garmisch e poi in Corea. “Il giorno del superG l’avevo infilato in un altro zaino, stavolta l’ho portato in partenza e domani lo renderò”. Il tappo è come l’anello-amuleto trovato da Michela Moioli, la concittadina trionfatrice nello snowboardcross e adesso raggiunta dall’altro capo del filo d’oro che unisce le due amiche nel segno della connection di “Bèrghem de üra”.

E per chi non crede alle coincidenze, ecco un’altra vicenda incredibile che si lega al capitolo della Goggia degli infortuni (4 operazioni, battezzate entrambe le ginocchia). “Era il dicembre 2013, avevo 21 anni. Mi ero sfasciata a Lake Louise, ero in aeroporto su una carrozzella sperando di trovare un posto in business class. Mi toccarono la spalla: era la svizzera Dominique Gisin, che scambiò il suo biglietto con il mio di economy. A causa dell’infortunio saltai i Giochi 2014, ma a Sochi andai per Sky e commentai proprio l’oro in libera di Dominique. Oggi, invece, è stata lei a commentare me e a intervistarmi: è in Corea per la Tv svizzera”.

Alla fine, il tempo è stato galantuomo anche con “Sofi”, la pasticciona che sa essere samurai. Gli anni dei dubbi, figli degli infortuni, sono alle spalle: “Se nella cenere del fuoco che ha smesso di ardere c’è ancora qualche scintilla, riparti da lì e lo alimenti di nuovo. Penso di essere stata fortunata: nello sci ho talento, ma nessuno mi ha regalato nulla. Mi sono presa tutto da sola, con gli artigli e con i denti: non è stato facile”. Nelson Mandela diceva: “A volte un vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato”. Quanto aveva ragione…

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