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Opinioni

DA LETTA A GALIMBERTI

ROBERTO MOLINARI - 26/03/2021

lettagalimbertiAlcune premesse mi sembrano doverose. È impensabile credere che la formazione di un nuovo governo in tempi normali non provochi degli assestamenti nel quadro politico.  A complicare la nostra realtà c’è una situazione di questo tipo. Un Parlamento eletto nel 2018 che ha fotografato  una Italia con predominanza di forze populiste. Due governi succedutisi e guidati dalla stessa persona, ma con maggioranze diverse e alternative, una totalmente populista e anti europea, l’altra europeista e di centrosinistra.  Un Parlamento che ha visto sino ad oggi il cambio di casacca di decine e decine di parlamentari e che ora mostra una  composizione di seggi che non corrisponde più al Paese reale.  Insomma, con una situazione simile anche per i più ottimisti sarebbe stato impensabile credere che non ci sarebbero stati mutamenti con il nuovo Governo Draghi sul sistema politico.

Ma aggiungo un altro elemento di riflessione che mi pare opportuno non dimenticare. La crisi di governo del Conte 2 è stata innescata da Renzi che ha la presunzione e l’ambizione dichiarata di essere il king – maker del sistema politico ridisegnando il quadro secondo i suoi obiettivi.

A rigore di verità occorre riconoscere che questo è in parte avvenuto. Ha eliminato Conte dal vertice della piramide di potere statuale, portato Draghi alla Presidenza del Consiglio  facendo sì che questa fosse l’unica scelta possibile,  tentato di minare l’alleanza PD, Cinque stelle e Leu e, in un quadro internazionale anch’esso in  movimento dopo l’elezione di Biden, proporsi ai leaders politici come l’uomo che dà le carte nel nostro Paese malgrado tutti i sondaggi attuali, in una situazione di unità nazionale, segnalino la sua irrilevanza numerica in Parlamento.

In politica c’è, tuttavia,  una regola costante.  Ad ogni azione corrisponde una azione uguale e contraria. E il quadro politico per effetto del nuovo governo Draghi si è rimesso in movimento.

Così noi abbiamo oggi una Lega che è rappresentata al Governo dai “moderati” e che è costretta ad accettare l’opzione europeista, non si sa quanto sinceramente, ma comunque in questo fortemente spinta dai ceti produttivi del nord. Un Salvini che gioca la carta dell’uomo di lotta e di governo, ma che non essendo più ministro dovrà combattere su tre fronti.

La divaricazione con Giorgetti sulla prospettiva politica, sovranismo o partito popolare europeo? La concorrenza della Meloni sull’egemonia nel centrodestra. Il Parlamento europeo dove l’attuale collocazione tiene la Lega isolata.

I “cinque stelle” in crisi identitaria avendo in tre anni accettato tutto e il suo contrario, subito perdite continue di deputati e senatori ed oggi costretti ad affidarsi obbligatoriamente, pena una discesa infinita, a Conte e quindi ad un capo politico che, in qualche modo li deve traghettare in un percorso evolutivo capace di trasformarli da movimento populista a partito organizzato e collocato nel centro-sinistra, slegato dalle intemperanze dell’ala più ortodossa e di quella strana creatura che è Rousseau.

In questo contesto si è aperta e in parte forse chiusa la crisi del PD.

Che è successo? Come scrivevo poc’anzi, in politica ad ogni azione corrisponde una azione uguale e contraria. Così Zingaretti, eletto dal congresso sulla base di un “mai con i “cinque stelle”, si è trovato prima a non poter andare al voto come voleva durante la crisi del Conte 1, poi a dover accettare il Conte 2 con l’alleanza con i “cinque stelle”, governo di fatto imposto da Renzi che in seguito ha mollato il PD e, infine,  dopo aver più volte sottolineato il “O Conte o morte” nella crisi imposta dall’ex e mai compresa dagli elettori, è dovuto passare sotto le forche caudine dell’accettazione della soluzione imposta dal Presidente Mattarella del Governo Draghi e di unità nazionale e cioè esattamente  quello che sino a poco tempo fa aveva sempre rifiutato come ipotesi e, di conseguenza, è entrata in crisi la sua leadership, perdendo la pazienza e sbattendo la porta soprattutto contro la schizofrenia correntizia,  rassegnando le dimissioni e aprendo, alla fine, il vaso di Pandora del più importante partito di centrosinistra.

Ma qui mi si permetta di svolgere alcune considerazioni.

A Zingaretti va sinceramente la solidarietà umana. Si è trovato fin da subito a doversi confrontare con la figura scomoda di Renzi, con gruppi parlamentari che non facevano riferimento alla sua segretaria, all’isolamento prodotto dalla mancanza di alleati come eredità avvelenata ricevuta e ad una sclerosi correntizia interna quasi impossibile da gestire.

Malgrado questa situazione è riuscito a rompere l’isolamento e a guadagnare punti. Ma, a un certo punto, si è trovato a gestire la crisi del governo Conte 2 innestata da Renzi, per le ragioni che ho già accennato prima e qui si è infilato in una serie di errori, complici anche consiglieri politici che esternavano più del segretario, che lo hanno portato a non essere più in grado di gestire il partito e un sistema correntizio che lo sottoponeva ad un bombardamento continuo di critiche sulla linea politica e sul modo di affrontare la crisi, critiche che spaziavano dalla gestione della crisi appunto, alla linea di dialogo con i “cinque stelle”, alla meno nobile, ma sicuramente presente richiesta di un congresso anticipato con l’intento evidente e non dichiarato di non lasciare gestire le candidature alle prossime elezioni politiche a Zingaretti in un sistema di liste bloccate e con la forte riduzione del numero dei parlamentari prevista della riforma approvata.

A fronte di questa situazione divenuta insostenibile Zingaretti ha sbattuto la porta e ha rassegnato, con quello che io personalmente, al di là della comprensione umana, ritengo un atto politicamente sconsiderato, le dimissioni.

Oggi, a distanza di alcune settimane da questo atto, il PD ha un nuovo segretario, Enrico Letta, di rientro dal suo auto esilio parigino. Dunque tutto risolto?

Non proprio, ma anche qui qualche ragionamento distante dall’ortodossia propagandistica e da zelanti zeloti democratici va fatta non fosse altro per rispetto dei militanti e degli elettori presenti e futuri del PD.

Con le dimissioni di Zingaretti si è aperto il vaso di Pandora.  Questo ha fatto sì che si guardasse da subito oltre alpe e si facesse  ricorso a colui che era stato defenestrato da Renzi, anche con il consenso degli stessi che oggi lo hanno richiamato cioè Letta.

Ma la politica non si può fare con  i risentimenti e questo  apre a possibilità forse inedite rispetto ad un partito che in 14 anni ha portato alle dimissioni anticipate ben 7 segretari.

Letta è certamente figura autorevole. Lo è nel partito, lo è nei confronti del Governo in carica e lo è nel Paese.

Quando fu estromesso col solo voto contrario in direziona nazionale di Pippo Civati, se ne andò senza proclami di vendetta, né strali, dimostrando e in politica questo conta, stile e intelligenza. Ma Letta è anche sicuramente uomo con conoscenze economiche e quindi in grado, anche per consuetudine, di dialogare con Draghi, con l’Europa e con i leader europei.

Detto questo il suo compito non è certo facile. Deve mettere la museruola alle correnti romane e indirizzare una linea politica che, se da un lato deve portare al mantenimento di un asse politico con Leu e “Cinque stelle”, dall’altro deve far si che si concretizzi nell’ambizioso protagonismo di essere non subalterno ai “pentastellati” e l’antagonista principale della Lega populista di Salvini.

Non solo, deve ricostruire il partito senza chiudere al pluralismo interno e senza farsi ingabbiare dalle correnti che sono, per ammissione di molti, solo l’esasperazione di un sistema parlamentare imposto da liste bloccate che spinge  alla fedeltà feudale verso il leader che garantisce la posizione di eleggibilità.

In questo Letta ha sicuramente degli alleati preziosi nella classe dirigente locale del PD e negli amministratori, gente generalmente preparata e più distante dai giochi e dagli  esasperati equilibri romani.

Il PD sconta ancora tra gli elettori il fatto che le ultime elezioni vinte sono quelle del lontano 2006, mentre negli ultimi anni è sempre stato al governo, tranne il periodo del Conte 1, attraverso il gioco parlamentare.

Questo lo fa percepire poco generosamente come un partito di potere e il partito dell’establishment, mentre la maggior parte del suo attuale elettorato è oggi concentrato nelle grandi e medie città, ed è fatto in maggioranza da voto di opinione espresso da ceti medio alti e normalmente con istruzione elevata.

Insomma, con una percezione tra gli elettori di questo tipo non si va da nessuna parte tant’è che dal 34% di Veltroni si è passati all’attuale 18% con la prospettiva di finire ad essere il quarto partito italiano superati dai “Cinque stelle” di Conte e da FdI.

Dunque una sfida complicata, quasi un ossimoro.

Primi passi. Letta ha dichiarato fin dall’inizio che non intende essere prigioniero delle correnti, né farsi condizionare da esasperate mediazioni e i suoi primi atti sembrano in questa direzione.

Coinvolgimento dei circoli sui punti principali del suo discorso di accettazione, nomina di due vice segretari senza andare a trattare con i capi bastone, presentazione di una segreteria snella e fatta da persone di provenienza diversa.

Un altro punto a suo favore o meglio due. Il mantenimento dell’alleanza con i “Cinque stelle” e Leu, ma anche la contemporanea apertura ad altri soggetti più moderati e l’impegno a far giocare al PD una partita di collaborazione competizione con tutti i partecipanti di questo centrosinistra allargato.

Secondo, la competizione alternativa alla Lega, anche questa da mettere in campo in un percorso che potrebbe certamente vedere il PD all’opposizione, senza drammi, senza timore, ma senza dare per scontata la vittoria del centrodestra.

E dunque, nel momento in cui scrivo, non posso che rilevare l’inizio di un “luna di miele” tra Letta, i militanti e gli elettori.

Certo nessuno può sapere quanto questo durerà, tuttavia,  l’orizzonte di Letta è il 2023 e quindi molto rimane da vedere e molti sono i nodi che rimangono da sciogliere, uno su tutti, la legge elettorale e, di conseguenza, come si sceglieranno le candidature al Parlamento.

Ricadute a livello locale della segreteria Letta.

È certo che le dimissioni di Zingaretti soprattutto perché repentine e a freddo hanno gettato nello sconquasso i militanti, va detto, tuttavia, che l’essere arrivati nel breve ad una soluzione autorevole ha fatto sì che il partito si compattasse subito, almeno in periferia, intorno al nuovo segretario.

Ora Letta ha giustamente dichiarato che intende mettere la testa anche sulle città che andranno al voto amministrativo in autunno. È evidente che le partite principali sono quelle di Roma, Milano, Torino, Napoli.

Io penso che anche Varese col suo carico simbolico e con l’attuale, almeno fino ad ora, scontro Galimberti-Maroni possa rientrare in quella lista di particolare attenzione che il segretario nazionale intende avere.

Qui, tuttavia, abbiamo due aspetti rilevanti.

Il primo. Il PD e il Sindaco in questi anni hanno sempre lavorato per allargare la coalizione cercando di andare al di là di quella che ci aveva visto vittoriosi nel 2016. In questo si è sicuramente anticipato un quadro nazionale soprattutto nei confronti di I.V.  e dei Cinque Stelle, senza abbandonare l’attenzione al civismo, ma  sapendo superare anche i veti di chi pensa che la politica di coalizione sia statica e richieda l’unanimismo.

Il secondo aspetto. Come sempre le amministrative si vincono, almeno per il centrosinistra, se prevale la dimensione locale, il buon governo locale e non il quadro nazionale o le regole romane.

Questo secondo punto è del tutto dirimente su ogni possibile strategia del centrosinistra al Governo cittadino. Bergamo e Brescia anche recentemente lo hanno dimostrato sia pur con tutte le loro particolarità e caratteristiche in terra lombarda. E lo hanno dimostrato portando alla vittoria sindaci di centrosinistra proprio nel momento del grande successo del populismo leghista.

A Varese, città particolarmente distante dal pensare romano, le eventuali parate di uomini di Governo o di leader di partito non sono mai particolarmente apprezzate. Quello che Varese ama è la pacatezza, la moderazione e soprattutto la praticità ed il fare, tutte cose ormai molto distanti dalla sciatteria di Salvini, ma anche dalla fallimentare organizzazione sanitaria della Regione Lombardia,  cosa quest’ultima sì, che sposterà gli elettori anche a livello locale. Confido che Letta sappia leggere la realtà, anzi una realtà come la nostra, fidandosi di chi sul territorio vive e ha costruito una esperienza unica, in primis il Sindaco Galimberti.

Roberto Molinari, Direzione Provinciale PD Varese

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