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Politica

MANIFESTO CORTOCIRCUITO

ROBERTO CECCHI - 26/03/2021

Gustavo Zagrebelsky, tra i firmatari del manifesto L’attesa messianica

Gustavo Zagrebelsky, tra i firmatari del manifesto L’attesa messianica

Qualche giorno fa è uscito un articolo (l’Inchiesta, Cundari, 10.3.21) che parlava della pubblicazione d’un appello-manifesto dell’associazione “LibertàGiustizia”, firmato da giornalisti e studiosi di fama internazionale come Sandra Bonsanti, Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky e molti altri, dal titolo L’attesa messianica. E quindi, non si poteva far altro che andarselo a leggere.

Effettivamente, è stata una sorpresa, perché trovarsi di fronte ad un manifesto (seppur nelle forme di appello-manifesto) non capita tutti i giorni. D’altra parte, basta leggere quel che dice la Treccani su quel che si debba intendere per manifesto, è un “Programma politico o culturale lanciato dai partiti, da gruppi o da correnti: il «M. del partito comunista» di Karl Marx e F. Engels, pubblicato a Londra nel 1848; il «M. del futurismo» di F.T. Marinetti, pubblicato in francese nel 1909; m. degli uguali, lo statuto del movimento politico settecentesco detto babuvismo”. Non si usa quasi più scrivere manifesti, perché fa parte di un passato rivoluzionario dimenticato; hanno un sapore un po’ stantio, sanno di antiquariato e quindi oggi, quando capita di imbattersi in una cosa del genere, c’è da stare in campana, perché ti aspetti che dica cose che nessun altro è stato capace di dirti prima, delle verità vere, maturate e saldamente fondate. Qualcosa di cui non ti eri accorto e di cui, invece, il manifesto ti rende edotto. Un manifesto è questo, è una sorta di verità rivelata.

L’inizio del documento non ha niente di rivoluzionario. Anzi, è dialogante. Parte col proposito di giudicare il Governo da quel che farà, anche se ritiene che fin da subito sia necessaria “una valutazione sul modo in cui il governo Draghi è nato ed è stato accreditato presso l’opinione pubblica italiana […], se non altro per alcune legittime preoccupazioni che esso reca con sé”. Dunque, fin qui nulla di male, perché si tratta di riflessioni legittime. Poco più avanti, il discorso dell’appello-manifesto si fa più spigoloso, perché sottolinea che la scelta “di chiamare Draghi al vertice di governo, a prescindere dalle valutazioni circa i suoi meriti, ha avuto il sapore di una radicale delegittimazione del ceto politico italiano, nella sua totalità”. Ma anche in questo caso non si dice niente che già non si sappia sulla delegittimazione di questa classe politica. Dopotutto, il vuoto di rappresentatività è stato oggetto di approfondimenti importanti, su cui ha scritto anche la Urbinati, asserendo che “la democrazia diretta web ha messo in moto la seguente novità: ha dato l’impressione che si possa usare la rappresentanza senza usare i partiti e che facendo questo si possa realizzare la premessa della democrazia diretta senza far sedere tutti i cittadini nell’assemblea” (Democrazia in diretta. Le nuove sfide alla rappresentanza, 2013).

L’appello-manifesto prosegue osservando che “Un altro motivo di preoccupazione democratica è che questo governo operi in quasi totale assenza di una opposizione parlamentare. L’entusiasmo unanimista fa perdere forse un po’ di senso dell’orientamento democratico: siamo di fronte a un’assoluta anomalia. Misura di una buona democrazia non è la quiete dell’unanimismo, ma la dialettica tra maggioranza e opposizione”. E già questa osservazione lascia un po’ perplessi, intanto perchè un’opposizione c’è e non è di poco conto e poi perché sembra che il documento dimentichi che c’è stato un appello a tutti del Capo dello Stato, di fronte al quale non si poteva certo far finta di niente. Più avanti, si arriva a parlare di uomini “prescelti dall’alto”, come se la scelta di andare nella direzione di questo governo non fosse stata il frutto di una crisi profonda, ma fosse quasi il capriccio della più alta carica dello stato. E così, si arriva a dire che “In tempi eccezionali, proprio l’emergenza potrebbe essere strumentalizzata, da alcuni, per consolidare politiche nel segno di un aggravamento dell’ingiustizia sociale, di una sistemazione oligarchica delle forme democratiche, di un ridimensionamento della funzione del pubblico, persino di un “ripensamento” del radicamento antifascista della nostra Repubblica”. Per concludere con “chiediamo a questi partiti di vigilare e tutelare i fondamenti costituzionali del nostro sistema democratico”.

L’appello-manifesto dice proprio questo, dice che la nascita di un esecutivo del genere può diventare lo spunto per qualcuno di un “Ripensamento antifascista della nostra Repubblica”, da cui discende la necessità di vigilare sui “fondamenti costituzionali del nostro sistema democratico”. Proprio così. E allora, lì per lì, vien da stare sulla difensiva, vien fatto di pensare che quella sia una verità e nasce il desiderio istintivo di prender parte, per scongiurare una simile eventualità. Ma dopo, immediatamente dopo, scatta il riflesso condizionato del ricordo di anni ormai lontanissimi, quali furono quelli della fine degli anni ‘60, quando un po’ tutti noi, allora giovanotti/e, tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, rimanemmo colpiti da affermazioni ultimative come queste. Anzi, ne fummo affascinati. Solo dopo, molto dopo, riuscimmo a dar loro il peso che meritavano e le mettemmo da parte, perché era maturata la consapevolezza che quel modo di fare era semplicemente lo standing di un certo profilo intellettuale, abituato ad evocare sfracelli, senza dare spiegazioni. Oggi, siamo vaccinati di fronte a queste gride manzoniane, anche se è rimasto vivo il modo d’atteggiarsi d’una certa cultura politica, dove “«giudicare» viene prima di «capire»”. Allora, ci accorgemmo di essere stati usati. E nacque la consapevolezza che, forse, neanche chi aveva pronunciato certe frasi aveva la capacità e la maturità di comprendere che cosa volessero dire veramente. Erano riflessioni completamente scollegate dalla realtà. “Con il senno di poi […] il cortocircuito che finì per bruciare il Sessantotto riducendolo ad evento in gran parte simbolico e catartico fu l’impossibilità per i giovani di allora ti trovare una controparte capace di costringerli a dialettizzare le loro sensibilità, a razionalizzare le loro intuizioni, a reindirizzare il loro volontarismo togliendolo dai vicoli ciechi dell’utopia per metterli sulla strada del riformismo” (Pombeni, 2018).

Lo sono anche adesso scollegate dalla realtà. Non servono troppi approfondimenti per convincersene. Basta ricordare la storia di Draghi. È una storia esemplare di caratura internazionale, al servizio da sempre della cosa pubblica, affatto usuale per questo Paese, funestato com’è dalla presenza di mezze calzette, se non addirittura da dei veri e propri “mariuoli”. E la sua prima conferenza stampa di qualche giorno fa, tanto agognata dai media, ha dato la misura di una persona affabile che sa rimanere essenziale, informata, ironica e con il giusto distacco, del tutto avvertito di quel che gli accade intorno. Del Presidente della Repubblica, poi, che l’appello-manifesto non cita espressamente, ma evoca chiaramente, non c’è proprio nulla dire. La storia di Mattarella parla da sola. Quella professionale e quella personale. Non c’è alcun motivo di temere per la democrazia e non c’è alcun bisogno di pronosticare sfracelli. Quel che serve è la collaborazione di tutti per uscire da una situazione di vera difficoltà, elaborando riflessioni su questa realtà che stiamo vivendo (ancora molto scarse) e prospettando soluzioni (ancora di là da venire).

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