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Attualità

SOLITUDINE

EDOARDO ZIN - 26/03/2021

Giotto, Ingresso a Gerusalemme, Padova, Cappella degli Scrovegni

Giotto, Ingresso a Gerusalemme, Padova, Cappella degli Scrovegni

È un giorno freddo e risentito. Di recente la neve ha innevato i bastioni dei nostri monti, eppur su quest’aria mutevole s’avvicina la Domenica delle Palme, a cui seguirà la settimana “santa”. Come posso chiamare “santi” i giorni che per il secondo anno consecutivo non ci permettono di partecipare ai riti che ricordano Dio fattosi uomo, torturato, condannato a morte, crocifisso, agonizzante, morto, sepolto e risorto?

Mi rivedo bambino di dieci anni che, agitando un ramoscello d’ulivo infiocchettato, acclama a Gesù che entra in Gerusalemme. Cantavo “Osanna”, ma non potevo comprendere che quella esclamazione vuol dire: “Salva”, “Donaci la salvezza”. Mai come in questi ultimi due anni abbiamo alzato gli occhi al Cielo e abbiamo implorato la salute del corpo, l’abbiamo quasi pretesa perché Dio è misericordia. Ormai non abbiamo più parole e siamo diventati afoni o è Dio che è diventato sordo e indifferente alle nostre suppliche? È brutto sentirci soli, abbandonati, anche se c’è una massa di persone che ti ascolta. Sì, penso a loro: ai malati di Covid, ai moribondi nelle terapie intensive contornati dalle premure di medici ed infermieri, ma tremendamente soli perché non possono salutare uno ad uno i figli, le spose, i loro cari, avere da loro un abbraccio.

Anche Gesù, dopo aver resuscitato Lazzaro, entra in Gerusalemme. Gli effetti della sua resurrezione si fanno sentire e viene accolto dalla folla che vuol vedere il taumaturgo. Ma lui sa di essere solo, alle porte della morte, e nessuno si prenderà cura della sua solitudine, anzi è lui che prende su di sé la sorte di tutti. Anche i suoi discepoli sono interessati più al danaro sprecato da Maria, che gli ha lavato i piedi con profumi preziosi, piuttosto che al cattivo odore della morte che emanava il corpo del  fratello. Anche i suoi amici avevano preferito badare al danaro piuttosto che aver compassione. Non si accorgono che quello di Maria è stato uno slancio gratuito, un gesto forse esagerato, ma pur sempre un gesto d’amore.

La folla lo acclama, gli offre un’accoglienza regale, anche se Gesù entra in città seduto sul puledro di un’asina. Egli non è un re di questa terra. Avrà lui pure fra pochi giorni una corona in capo, ma sarà composta da rami di rovi intrecciati tra di essi. Il suo potere è il servizio che non si trasforma in dominio e sopraffazione, ma rispetto per la vita, per la giustizia.

Ai folti sentieri della memoria che mi evocano i giorni della mia fanciullezza, si fa largo una domanda: “Se Gesù entrasse oggi nelle nostre città, chi lo accoglierebbe?”. Ci sarebbero i potenti pronti a inchinarsi davanti a lui, ci sarebbe chi sgomiterebbe pur di arrivargli vicino per baciargli il lembo del mantello, e anche l’usuraio si inginocchierebbe davanti a lui senza ritegno? Forse sì. Ma Gesù ripeterebbe il suo comando:” Sono venuto per servire, non per essere riverito”. Ed andrebbe incontro alla sua morte non per placare l’ira del Padre, ma per insegnarci fino a dove si spinge il suo amore.

L’ulivo che porteremo a casa ci ricorda questo volto di Dio umile, giusto, misericordioso.

Mi ritorna alla mente un ricordo che il cardinale Martini amava ripetere. “Un giorno, incontrai un giovane che mi disse: – Non so che farmene della fede. Non ho nulla in contrario, ma cosa dovrebbe darmi la Chiesa? -” L’uomo di Dio gli rispondeva: “Ti darebbe Gesù, il Dio che è venuto in mezzo a noi non con le ali di un angelo e si farebbe incontro a te con i suoi piedi”. Anche Gesù era fragile, debole, mortale; un uomo che si poteva ascoltare, vedere, toccare, capace di gesti e parole veramente umane: condivideva la tavola con gli amici, piangeva per un amico morto. Quelli che negano Dio in realtà negano una sua immagine forgiata dai credenti, dalla chiesa, un Dio guerriero, violento, intollerante che nel suo nome hanno combattuto guerre e compiuto massacri. Ma quest’uomo faceva udire i sordi, vedere i ciechi, mondava i lebbrosi, faceva camminare i paralitici e la sua bontà inchiodata sugli abbandoni, sui tradimenti e sugli odi del mondo è il miracolo che un giorno ci metterà tutti in ginocchio, se noi lo vogliamo.

Questo Dio fattosi uomo non ci ha lasciati soli. Lo ricorderemo giovedì. La sua esistenza nella storia è affidata a chi ha fede in lui. L’uomo ha bisogno di essere in relazione con gli altri. Lo proviamo particolarmente in questi giorni di pandemia che ci costringe a isolarci. Nell’ultima sua cena, Gesù ci lascia il suo corpo, sotto le sembianze del pane e del vino. È la prima Eucarestia e egli darà ordine ai suoi discepoli di fare altrettanto. Nello spezzare il pane Gesù rivela il suo mistero. Anche oggi, mentre i cristiani sono riuniti per partecipare a questo mistero, magari l’uno accanto all’altro come degli sconosciuti, magari carichi di aggressività verso gli altri, la frazione del pane afferma che è possibile credere nella condivisione fraterna. Proprio la condivisione del pane e del vino tra i cristiani è segno della fraternità, della convivialità che tende alla comunione perché tutti ci nutriamo del corpo del Signore risorto.

Penso a tante nostre Eucarestie sciatte, dove il celebrante ci offre il Pane della Vita a cui ci si avvicina con una spiritualità intimistica, biascicando giaculatorie e con il capo velato, ma non con la coscienza che quel Pane è stato spezzato e ora viene condiviso. Non si osa più dare agli occhi ciò che il mistero nasconde, ma che si rivela  nello spezzare il Pane e lo si testimonia condividendolo tra coloro che hanno fede in Lui.

Quest’anno, vivendo il mistero della Prima Eucarestia, penserò a tutti i preti che hanno confessato questa realtà fino alla morte, restando accanto ai ricoverati in ospedale per Covid, non solo per consolarli, ma per servirli, tenendo la mano nella loro nell’ora suprema, chinandosi per accogliere l’ultima loro parola. E con essi penserò a tutti i preti, non mi importa se di strada o di curia, se giovani o anziani, se santi o empi e chiederò all’unico Sacerdote di custodirli dal male per continuare ad essere servitori dell’uomo non in forza del loro prestigio, ma della loro debolezza e della loro sofferenza.

Venerdì non è il giorno della comunità, ma della solitudine. Andremo in chiesa o, raccolti in casa, venereremo il Crocifisso, ma non potremo nutrirci del Pane Eucaristico, che si è nascosto nel guscio del sepolcro. Anche i cristiani sono sepolti con Lui per poter risorgere con Lui. È il giorno del silenzio. Anche le campane tacciono. Sulla croce, dicono i Vangeli, da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio regnano buio e silenzio. Il Cristo crocifisso è l’icona del silenzio. È questo silenzio che rende possibile l’ascolto della narrazione della Passione. Così il silenzio ci aprirà il cuore al Dio che parla in noi.

Ed è dal silenzio che nasceranno le preghiere per la Chiesa e per il mondo: passeranno davanti al nostro cuore il coraggio di papa Francesco, lo sforzo degli uomini di buona volontà per creare un mondo più giusto, le nostre disunioni, il dramma del popolo ebreo e quello di tutti i popoli che vivono la calamità della guerra, della fame, la ricerca straziante di chi è alla ricerca di Dio, le sofferenze dei malati, dei carcerati, degli orfani, di chi aspira ad una terra che li accolga.

Ma poi questa solitudine e questa tristezza scompariranno con la Pasqua di Resurrezione, in un’ondata di speranza che sconfigge anche il male più profondo perché Cristo risorto ci porterà ancora una volta il germoglio della vita nuova.

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