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Cultura

PER BREVITÀ CHIAMATO ARTISTA

RENATA BALLERIO - 09/04/2021

de-gregoriChissà se qualcuno il 4 aprile, per i settant’anni di Francesco De Gregori, ha intonato, Perché è un bravo ragazzo… nessuno lo può negar, magari nella versione inglese, For He’s a Jolly Good Fellow? Vista l‘ironia e autoironia del cantautore romano è molto probabile che quella canzoncina non sia stata intonata e non si sia aggiunta al coro dei tanti auguri mediatici. Che sia stato un bravo ragazzo è testimoniato dal suo essere stato, lui figlio di un bibliotecario del Vaticano, tra i volontari per il salvataggio dei libri dal fango dell’alluvione del 1966 a Firenze. Che sia stato un cantautore innovativo è innegabile anche da parte di chi non si riconosce nella sua musica, o meglio in parole e frasi talvolta maliziosamente enigmatiche, suggestive ma non di immediata comprensione, in un gioco di libere associazioni, che coinvolgono l’ascoltatore. Non è un caso che un libro a lui dedicato sia stato intitolato Il sovversivo della forma. Certamente per i suoi primi album vale tale definizione. In modo altisonante si è parlato di sovvertimento semantico, cioè di spiazzamento dato da certe parole o da frasi con costruzione intessute di passaggi misteriosi, con improvvise metafore evocative. Alcuni suoi testi sono già entrati in manuali scolastici, proponendo la vecchia questione se i i cantautori rientrino a diritto nella categoria dei poeti. Come si sa, per alcuni la risposta è quasi meccanica. Se il testo ha una sua musicalità anche senza la musica di accompagnamento, può essere considerato poesia. Potremmo ben dire che di definizion non c’ è mai certezza. Il Principe, secondo l’appellativo datogli da Lucio Dalla e a lui gradito, ha sempre tagliato corto definendosi artista. Il che non semplifica il giudizio. Bella e valida fu la motivazione per cui nell’ambito del Premio Chiara gli fu assegnato l’importante riconoscimento. Era il 17 maggio del 2015 e davanti ad un folto pubblico, all’Università dell’Insubria, si lesse la menzione: “per avere magistralmente raccontato in modo visionario e poetico emozioni privatissime e sentimenti collettivi di più generazioni. Un premio alle sue parole ma anche alla sua musica, se mai si potessero dividere”.

Nel corso della sua carriera la sua variegata produzione ha spesso provocato giudizi divisivi anche per quel suo equilibrismo tra toni sognanti, con qualche leziosità, come in Buonanotte Fiorellino, e sguardi disincantati sulla realtà. E forse, a dispetto di altri cantautori, i giudizi degli elogiatori o degli scettici hanno per lo più separato la musica, le sonorità di certi accordi delle chitarre acustiche e delle tastiere, per esempio, dai testi.

E poi il De Gregori degli anni Settanta è lo stesso degli ultimi anni? Il De Gregori che ci racconta i nostri sentimenti è lo stesso che, senza moralismi giudicanti, denuncia e si fa portavoce dal pacifismo di Generale al bisogno di libertà, come nella Donna cannone? O forse è meglio scoprirlo (o riscoprirlo) in canzoni meno note ma non per questo mai banali o banalizzanti, anche un pochetto enigmatiche.

Qualcuno ha detto che non sono canzoni misteriose ma canzoni sospese “tra realtà e sogno, tra universalità e quotidianità” e che soltanto un ascolto attento fa trovare la chiave di lettura. Certamente la sua produzione è una pagina della cultura, anche socio-politica dell’Italia. Anzi una buona lente di lettura di cinquant’anni di storia italiana. Un esempio? Quasi censurato dalla televisione perché vicino o simpatizzante del PCI, scrive con amara ironia: “ieri alla televisione mi hanno detto di stare tranquillo”. Fischiato in alcuni concerti, criticato dalla Chiesa per la canzone L’agnello di Dio, dolorosa litania laica, cantore delle delusioni adolescenziali come L’Uccisione di Babbo Natale, sempre riservato e discreto, amante della letteratura e appassionato lettore, come di Cesare Pavese e di Steinbeck (a Varese dichiarò di amare la storia nelle storie di Chiara): De Gregori è tutto questo e altro ancora. Per lui si potrebbero usare le parole con le quali il critico Giovanni Macchia si riferì a Charles Baudelaire: si avvicina a noi a mano a mano che il tempo sembra distaccarlo. E se può sembrare irriverente il paragone con il genio francese, di cui ricorre proprio ad aprile l’anniversario dei duecento anni della nascita, sarebbe giusto pensare a quanta influenza ebbero i versi del poeta della modernità in molti cantautori. De Andrè, con cui De Gregori collaborò, lo ammise. Pura coincidenza? Forse, ma è utile rileggere una intervista rilasciata da De Gregori a New York su che cosa sia l’arte e quali finalità abbia. Rispose citando Oscar Wilde per dire che sarebbe imperdonabile un moralismo come mera cifra stilistica e ricordò, proprio per questo, anche Baudelaire, il poeta maledetto.

In fondo De Gregori ci ricorda, come ci ha sempre dimostrato, che i suoi testi non sono canzonette e riesce, volenti o nolenti, a darci, uscendo dagli schemi, dei dubbi. Sarà un caso che ammette che non riscriverebbe Viva l’Italia? Forse dobbiamo come per il lettore tranquillo e per benino di Baudelaire ammettere che possiamo anche non capire tutto: alcune canzoni del Principe ci suggeriscono, con eleganza, proprio questo.

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