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Urbi et Orbi

IN ORDINE SPARSO

PAOLO CREMONESI - 16/04/2021

La partecipazione alle elezioni regionali dal 1970 al 2015

La partecipazione alle elezioni regionali dal 1970 al 2015

Quando tra qualche anno, se Dio vorrà, ci saremo abituati a ricevere il vaccino anti-covid magari insieme a quello antinfluenzale; quando le divisioni per colori saranno solo un pallido ricordo e l’economia avrà ripreso lentamente a camminare; quando le coppie avranno ricominciato a fare figli e per gli studenti la presenza fisica a scuola sarà tornata ad essere un fatto normale, quando insomma potremo tirare fuori la testa da questa battaglia medico-mediatica contro cui cerchiamo a fatica di tenere botta, ebbene tra i tanti cocci del nostro Paese da rimettere in sesto, un posto di primo piano lo dovremo trovare per le Regioni.

L’istituto lo scorso anno ha festeggiato tra alti e bassi i suoi primi cinquant’anni. Ma proprio l’epidemia di coronavirus ha svelato la confusione, l’approssimazione, i vistosi limiti di questa ‘invenzione’ che la legge 281 del 16 Maggio 1970 aveva invece immaginato come uno strumento per avvicinare la pubblica amministrazione ai cittadini.

Quando leggerete queste righe, a Dio piacendo, sarò vaccinato. Perché? Perché ho la residenza nel Lazio. I miei fratelli, lombardi, ancora non hanno potuto nemmeno iscriversi.

Ci sono Regioni che hanno vaccinato per categorie (tra gli altri: professori con le scuole chiuse, operatori che lavoravano in Smart working, impiegati di tribunale) fregandosene degli anziani a rischio. Altre dove la campagna vaccinale non è ancora decollata. Così la possibilità di vita o di morte (perché, al netto, di questo si tratta) per taluni dipende dalla fortuna o meno di essere nati in un posto piuttosto che in un altro. Ogni Regione si comporta come un piccolo potentato locale; eppure il titolo V della Costituzione dice che la Repubblica è “una ed indivisibile”.

Non c’è bisogno di scomodare le irresistibili imitazioni di Crozza-De Luca, Crozza-Zaia o Crozza-Fontana per accorgersi di questo mondo, direbbe il proverbio, “bello perché vario”.

“Se il pugliese Emiliano impone il bonario «fai-da-te» sulle scuole – scrive Tommaso Labate sul Corriere della Sera – se il sardo Solinas propone l’archetipo del passaporto vaccinale, se Spirlì si muove a corrente alternata, se più o meno tutti danzano tra aperturismo spinto e chiusurismo incallito, qualcuno ha tenuto fede al personaggio. Come Enzo De Luca, quello che aveva relegato al ruolo di bambina «Ogm (…) cresciuta dalla mamma con latte al plutonio» la figlia di una signora che lamentava la disperazione della prole a causa delle scuole chiuse”.

I governatori, (per altro definiti così erroneamente avendo il nostro Paese optato nel 1995 e nel 1999 per l’elezione diretta dei Presidenti delle giunte regionali) sono a caccia di voti anche in tempo di covid. Centralisti nell’assunzione delle responsabilità. Autonomisti sulle convenienze.

Dopo mezzo secolo di vita si può essere soddisfatti dell’introduzione delle Regioni?

Le decine di inchieste della Magistratura sugli scandali locali non hanno deposto certo a loro favore. Ma il segnale più indicativo del gradimento o meno dell’istituzione è offerto dalla curva discendente della partecipazione alle elezioni. Nel 1970 andò a votare il 90 per cento degli elettori. Dopo soli trent’anni la partecipazione è scesa, a seconda delle Regioni, di un terzo o due terzi con una generale tendenza a metà degli aventi diritto. La percentuale elettorale nazionale è superiore e questo significa che i poteri pubblici che dovevano essere più vicini alla cittadinanza sono invece considerati dagli italiani i più lontani.

Un altro problema che si assomma al precedente (ed a cui ho dedicato la mia tesi di laurea “Il problema delle Regioni all’Assemblea costituente”) riguarda numeri e confini delle stesse. All’epoca del dopoguerra non avevano tradizioni alle quali ispirarsi. Le divisioni pertanto seguirono con scarsa fantasia i confini delle circoscrizioni elettorali che a loro volta erano state disegnate sulla base delle ripartizioni statistiche di Pietro Maestri tracciate dopo l’unità d’Italia. Ne è venuto fuori un variegato risotto con istituti di diverse dimensioni. Solo otto Regioni hanno popolazioni tra i quattro e cinque milioni di abitanti. Con all’estremo la Lombardia (dieci milioni) e la Val d’Aosta (125mila). Già nel ’47 l’associazione geografi italiana rivolse vibranti proteste all’Assemblea costituente per le modalità con cui si stava disegnando il reticolato. Ma tant’è: ancor oggi un lombardo si domanda cosa abbiano in comune Sondrio e Cremona, un laziale Rieti e Latina. Foggia non è Bari e Bari non è il Salento. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

“Il caos di queste ore tra Regioni e governo centrale dimostra una cosa semplice. Il Titolo V della Costituzione così com’è non funziona”. Con la consueta franchezza Matteo Renzi sintetizza la situazione. Il leader di Italia viva può piacere o non piacere (ai più di solito e abbastanza inspiegabilmente non piace). Ma resta il fatto che sia uno dei pochi politici che ponga domande di lungo respiro e pensi all’architettura del nostro paese. Quattro anni fa con il famoso referendum Renzi aveva proposto tra l’altro l’introduzione di una clausola di supremazia. In questo modo (come, per esempio, oggi nel caso vaccini) il Governo centrale avrebbe potuto prendere in mano le redini della situazione istituendo norme univoche. Invece è andata come è andata. Ma cambiare i rapporti tra Governo e Regioni rimane una priorità: i ricorsi generati dai conflitti tra Roma e la periferia sono stati quasi la metà di quelli complessivamente presentati in un anno davanti alla Corte costituzionale.

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