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Cultura

DUBBIO MANIFESTO

RENATA BALLERIO - 07/05/2021

manifestoPierre Joseph Proudhon, sociologo, anarchico, con molte idee criticabili, come il suo antisemitismo, scrisse che “i giornali sono i cimiteri delle idee”. Certamente non è passato alla storia per questa sua affermazione ma è, comunque, uno dei tanti che ha criticato quell’universo che si chiama giornalismo. In tempi più recenti un intellettuale, vero intellettuale di nome e di fatto, ha affermato che “i giornali non sono fatti per diffondere ma per coprire le notizie”. Se è buona norma diffidare sempre delle sentenze ad effetto, scoprire che l’affermazione è stata pronunciata da Umberto Eco non lascia indifferenti. Forse entrambe le frasi possono essere un input per capire la progressiva crisi dei giornali, in termine di calo nelle vendite e di lettori fedeli. Il che – a dire il vero – è oggetto di frequenti dibattiti da parte degli addetti ai lavori; potremmo chiamarli esami di coscienza o inevitabili cahiers de doléances.

Quasi sicuramente il compleanno dei cinquant’anni di un giornale, quale Il Manifesto, merita un esame. Lo merita perché sembra smentire con forza le due feroci affermazioni. E questo al di là di omaggi convenzionali o limitanti giudizi ideologici. Anzi può diventare un’occasione per conoscere e riflettere su un modo di fare giornalismo ma su anni- spartiacque nella cultura non solo italiana. Proprio per questo ha ben fatto la rete due della Svizzera italiana a ricostruire l’esperienza de Il manifesto inserendola in un contesto più ampio, il giornalismo degli anni ‘70, che si caratterizzarono di feconda pluralità giornalistica. Giornalismo, anche a seguito degli anni della contestazione, innovativo nelle modalità comunicative e nelle tecniche. A titolo informativo il ciclo radiofonico, partito da quel 1971 si è concluso con l’analisi dell’evoluzione di Libé, Libération, il quotidiano francese della sinistra francese. Un modo per capire le idee di quegli anni cruciali, tumultuosi, da mettere in relazione anche ai recenti fatti legati all’estradizione dei terroristi italiani dalla Francia. Un modo per comprendere il valore di come si comunica. Se è vero che un articolo non si legge due volte, a differenza di quanto può capitare per un saggio, è altrettanto vero che la responsabilità dei giornali di far nascere e sviluppare la cosiddetta opinione pubblica è forte. E lo è ancora, nonostante tutto.

Chi pensa al Manifesto, storica testata di sinistra, anzi dichiaratamente comunista, figlia di un certo Sessantotto extraparlamentare, lo associa con facilità a battaglie ideologiche e politiche, eppure – come è stato sottolineato nelle interviste del ciclo radiofonico svizzero – il primo direttore, anche se non amava definirsi tale, Luigi Pintor fece dichiarazioni interessanti. Disse: non sarà un foglio di agitazione ma di giudizio sulla realtà. Una linea editoriale significativa per quegli anni: anni davvero tumultuosi, in cui – secondo un giovane giornalista digitale intervistato alla Radio svizzera – i giornali erano sobri, elitari, e poco portati a giudicare la realtà politica. Un giudizio certamente da contestualizzare e da esemplificare. Proprio per questo parlare di quanto rappresentò Il Manifesto è uno strumento importante per leggere la storia del giornalismo italiano. I motivi sono molteplici. Fu un giornale che nacque da una contestazione all’interno del PCI. Giornalisti eretici per alcuni. La prima copia come quotidiano in quel lontano 28 aprile 1971 mise in atto una scelta, quella di criticare non solo la destra ma una certa sinistra. O meglio stare a qualsiasi costo, come ricorda l’attuale direttrice Norma Rangeri (Tommaso Di Francesco è il condirettore), dalla parte degli oppressi. In fondo un giornale deve saper rispondere a esigenze precise. Ha una funzione di servizio sociale e di sentinella della realtà. Se lo abbia fatto Il Manifesto non sono certamente soltanto il numero di copie vendute a dirlo.

Un giornale sempre senza soldi, rinato dalle difficoltà anche economiche con scelte di gestione alternative (dal 2012, anno in cui lasciarono il Manifesto figure, come Vauro e l’indimenticabile Rossana Rossanda, è una cooperativa editrice composta da giornalisti e poligrafici). E alternative sono sempre state le sue scelte. Quando da rivista passò ad essere quotidiano una copia costava 50 lire. Un segnale se si pensa che – secondo i dati ISTAT circa il costo della vita nel 1970 il giornale, il biglietto del tram e il caffè costavano 70 lire e la benzina 160 lire al litro. Alternativo nel dare spazio alla dimensione internazionale, come testimoniato dall’inserto Le monde diplomatique, a non dare spazio alla pubblicità, ad essere tra i primi a livello italiano di avere una edizione digitale. Senza rinunciare a presentare anche realtà locali: nel novembre 2020 parlando della sanità dà voce anche al sindaco di Varese o nel 2018 informa con lucidità dei tifosi B&h, nazirock presenti anche allo stadio varesino. Piccoli ma significati esempi. Il giornale in mezzo secolo di vita è cambiato ma sopravvissuto ad altri nati in quei tumultuosi anni Settanta. Andrea Orlando ha parlato di coerenza nel cambiamento. Il Manifesto non rinuncia a denunciare chi fa informazione distorta, le imposture, oggi chiamate fake news, che- come ha scritto anche di recente- si amplificano in modo ridondante per cui non viene facile scoprirne la realtà. Certo lo fa a modo suo ma senza mercificazione e con chiarezza di parole. Anche coraggiosamente.

E non ci deve sorprendere di leggere proprio su Il manifesto un commento di questo tipo per l’ultima enciclica papale. “Questa è un’enciclica sull’amore perché passare da soci a figli vuol dire passare dalla ricerca dell’utile all’amore senza ragione: i migranti non si devono accogliere perché possono essere utili, ma perché sono persone, e i disabili e gli anziani non si devono scartare perché una società dello scarto è essa stessa inumana”. In fondo un giornale che non rinuncia ad essere comunista e che sa – a modo suo – agitare le coscienze. Non sarà un caso che Giorgio Bocca tanti anni fa disse che era una testata che portava nel giornalismo italiano il dono del dubbio. Magari anche altri giornali potrebbero farci questo dono.

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