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Editoriale

VARESÌ

MASSIMO LODI - 14/05/2021

candidatiGabriele Albertini declina la candidatura a sindaco di Milano. Lo voleva Salvini, forse un po’ meno Berlusconi, chissà Meloni. Lui ha tagliato corto mediante forbici diplomatiche. No per motivi familiari. Aggiungendo a sorpresa: nel caso di corsa e successo, avrei chiesto al mio avversario Giuseppe Sala di far da vice. Motivo? Stimo lui e stimo che, in un catastrofico rovescio epocale, le forze migliori d’una città debbano unirsi per governarla.

Insomma: l’idea d’allestire sotto il Duomo una “maggioranza Draghi”. O qualcosa che molto le somigli. Se l’amministratore di condominio avesse giocato la partita, vincendola, i primi a stupire e a rimanerne imbarazzati sarebbero stati i suoi sponsor, a iniziare dal capo della Lega. Eppure Albertini non avrebbe fatto altro che replicare l’idea d’union sacrée suggerita, causa emergenza, da Mattarella. Perché meravigliarsi d’una logica consequenzialità centro-periferia, dati i tempi, le macerie, l’orizzonte incognito?

Guidare una città differisce dal guidare un Paese, né è immaginabile di sottrarsi alla competizione prevista dalle regole elettorali. Tuttavia, espresso il voto, nulla impedisce a chi prevale d’avvalersi di personalità appartenenti all’area, se non alla squadra, di chi soccombe. A una giunta non tocca di conformarsi militarmente all’anima politica della maggioranza sancita dal verdetto popolare. Disinnescata l’hybris da trionfo, può pescare nella minoranza personalità funzionali alla causa dell’amministrare bene.

Un tale concetto, tanti Albertini, dovrebbe oggi prevalere in ogni realtà municipale. Siccome bisogna ricostruire insieme un intero Paese, non si vede cosa osti a farlo in una miriade di paesi. Per paesi intendendo comunità piccole, medie, grandi, metropolitane. Milano nel citato esempio. E giù giù a scendere, fin nelle nostre zone periferiche: Varese, Busto Arsizio, Gallarate.

Prendiamo Varese. Sono in esecuzione lavori straordinari, che vedono il concorso d’enti locali di segno partitico diverso (Comune di centrosinistra, Regione di centrodestra), obbligati alla prosecuzione nella legislatura a venire. Chiunque la spunti, dovrà continuare negl’itinerari intrapresi, favorevoli al vantaggio collettivo. Perciò: 1) se Galimberti riconquista Palazzo Estense, gli gioverà spartire la residenza con un’opposizione che ne mutui i progetti in corso, responsabilmente aiutandolo a ottimizzarli; 2) se Maroni dovesse avvicendarlo, gli sarà indispensabile, non solo utile, far tesoro dell’eredità ricevuta, e chiamare figure qualificate -al netto del marchio politico- a completarne il dettato. È questo il debito buono d’istituzionalismo che ci si aspetta da vincitori saggi, pragmatici, manageriali. L’occasione offerta dal rilancio nazionale tramite i fondi del Pnrr non va fallita in logiche esclusive di gestione, ma efficientata dal contrario: l’inclusività trasversale. Riassumibile in una formula di fantasioso reality: un ideale/pratico listone post-urne. Anti-no e a nome “VareSì”. Talmente virtuoso da non sembrare virtuale agli occhi ingenui del cittadino qualunque, iscritto al suo personale movimento civico.

Ps

Non sorprende l’addio di Galimberti a Zanzi, sostituito nel ruolo di vicesindaco da Ivana Perusin e “dimesso” da assessore alla polizia urbana. La convivenza era logora da tempo, come testimoniato da difformità d’idee, giudizi, voti consiliari tra Varese 2.0 e il resto della maggioranza. Ciò che ragioni di conservazione formale dell’intesa datata 2016 avevano sinora preservato dal crash, la campagna elettorale ha dissolto. O di qua o di là: in vista della partita d’autunno il sindaco ha scelto la chiarezza, ritenendo doveroso correre il rischio politico dei saluti anticipati.

L’epoca del patto tra Democratici e Varese 2.0, sul quale si costruirono l’alleanza allargata di centrosinistra e il successo contro il leghismo dominante da 23 anni, appartiene alla storia. Le cronache successive non sono sempre state all’altezza della base d’entusiasmo bosino che innescò quell’avventura.

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