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Attualità

COLTIVATORI DI SFIDUCIA

GIANFRANCO FABI - 14/05/2021

astrazenecaE’ passato più di un anno da quella fine febbraio del 2020 in cui il virus ha iniziato a far paura ed emerge sempre più chiaramente come uno dei problemi di fondo che si è ancora di più accentuato di fronte all’emergenza è stato e rimane quello della comunicazione. E bisogna dire, non solo per colpa dei giornalisti che comunque hanno una buona dose di responsabilità nell’aver accentuato di toni, nell’aver ricercato il titolo accattivante, nell’aver sollecitato i timori così come enfatizzato le notizie approssimative.

Il caso dei vaccini è emblematico. La sospensione di qualche giorno, in via precauzionale, delle somministrazioni di AstraZeneca ha dato il via ad una campagna in cui alla razionalità si sono preferite le emozioni tanto che, soprattutto al Sud dove il vaccino della multinazionale anglo-svedese è stato rifiutato rallentando il ritmo delle vaccinazioni: ai primi di maggio c’erano 1,7 milioni di dosi sono ferme nei frigoriferi di tutto il Paese. In Sicilia, Basilicata e Calabria oltre il 40% delle dosi consegnate non sono state utilizzate mentre in Lombardia, anche grazie all’impegno di informazione e di rassicurazione dei medici, questa percentuale era attorno al 15%, un livello del tutto naturale per garantire un regolare andamento delle inoculazioni.

Titoli come “Paura per AstraZeneca” hanno lasciato il segno e hanno avuto molto meno enfasi le notizie delle 40 milioni di dosi utilizzate in Gran Bretagna senza particolari problemi così come le rassicurazioni degli esperti che hanno sottolineato come il rischio del virus sia enormemente superiore a quello di una vaccinazione. E allo stesso modo è stata messa in secondo piano la notizia che anche gli altri vaccini hanno fatto registrare eventi avversi.

Si è quasi coltivata una sfiducia collettiva con il risultato di porre ostacoli ad una campagna vaccinale già iniziata con difficoltà e che tuttavia, dalla nomina come commissario straordinario del generale Figliuolo, ha avuto una significativa accelerazione. E bisogna notare che in tutta Italia c’è stato un impegno corale di medici, infermieri e volontari che hanno dedicato e stanno dedicando tempo e passione non solo con efficienza, ma anche con gentilezza ed umanità. Ma questo aspetto ha fatto e continua a fare molto meno notizia e per trovarne riscontro bisogna ogni tanto spulciare nella rubrica delle lettere al direttore.

La colpa, dicevo, non è tutta dei giornalisti. Esperti e politici hanno offerto una grande quantità di materiale per costruire un’informazione confusa e approssimativa. Si può citare la polemica sul coprifuoco alle 22, un problema diventato una disfida di principio per alzare la voce e far notizia più che guardare all’effettiva necessità di mantenere alta la guardia contro il virus.

Si può citare il disarmante balletto delle cifre sul tasso di positività, un dato che accompagna ogni giorno la comunicazione dei casi positivi e, purtroppo, dei morti. Ebbe questo tasso, che indica la percentuale di “positivi” rispetto al numero dei tamponi effettuati in quel giorno, può avere un valore in sé, ma non può essere indicativo di una tendenza se confrontato con quelli dei giorni precedenti. Sarebbe indicativo se il numero dei tamponi fosse sempre uguale, ma così non è. Nei fine settimana se ne fanno di meno e il tasso inevitabilmente è più alto perché è presumibile che chieda il tampone chi abbia motivi urgenti per richiederlo, in particolare abbia i sintomi per cui è urgente avviare una terapia in caso di positività. Eppure non passa giorno che nei titoli dei giornali compaia un “si alza” o un “si abbassa” riferito al tasso di positività dando l’impressione di un andamento della pandemia senza riscontri con la realtà.

Un altro elemento di confusione è il “famoso” dato Rt, un dato che indica quante persone possono essere infettate da una persona positiva. Se questo dato è inferiore ad uno allora siamo di fronte ad un rallentamento della pandemia. Tutto bene se non che il dato ufficiale, calcolato dall’Istituto superiore di sanità, è normalmente tre settimane in ritardo: il problema è che non si tratta solo di un dato statistico, ma di uno dei più importanti parametri alla base del passaggio delle regioni da un colore all’altro. E non senza merito alcune regioni hanno chiesto di non tener più conto di quest’indice guardando invece a dati sicuri come il numero dei ricoverati in ospedale e in particolare nelle terapie intensive.

A proposito di informazione e pandemia si è parlato di “infodemia”, cioè, come spiega il dizionario Treccani: “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”. Come dire che i problemi non vengono mai soli.

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