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L'intervista

DIABLO D’UNA BICI

FELICE MAGNANI - 21/05/2021

???????????????????Claudio Chiappucci e la sua bici da corsa? Un amore cominciato prestissimo, caldeggiato da un papà innamorato di Fausto Coppi e del ciclismo, un sentimento che diventa sempre più vivo e sempre più intenso, anche quando gli anni corrono via veloci, tentando di sminuire o di rubare la straordinaria bellezza di un gesto atletico che ha fatto esultare milioni di persone assiepate lungo le strade o assemblate davanti a un video. Con il “diablo” il ciclismo cambia volto, regala attimi di pura passione sportiva, forse a tratti un po’ folle, un po’ presuntuosa, ma capace di iniettare brividi di gioia in tutti coloro che del ciclismo amano lo stupore e la meraviglia, la capacità di sorprendere fuori dagli schemi ordinari, coloro che vorrebbero mettere tutti in fila i corridori, come tanti soldatini, appiccicati l’uno all’altro, per fare da scudo umano all’eroe del giorno. Chi ama il ciclismo non si converte alla robotizzazione e alla ripetitività, preferisce l’estemporanea e orgogliosa bellezza di un gesto atletico, inventato al momento per dimostrare che la vita è sempre qualcosa di più. Il ciclismo del “diablo” non ama l’immobilismo, ma il movimento, non l’imposizione, ma la creatività, non la ripetitività, ma la fantasia, quella che cambia continuamente sorprendendo tutti. Chiappucci è stato un personalissimo interprete del ciclismo, se lo è inventato e lo ha fatto vivere, a dispetto di chi, forse, pensava che quel mondo fosse già predefinito e preconfezionato. Da cosa lo si evince? Dal colore delle sue vittorie e delle sue sconfitte, dalla straordinaria bellezza dei podi conquistati, dalla sua capacità di sorprendere sempre, anche quando il mondo che lo circonda sembra aver già decretato a priori, il risultato. Ecco la grandezza di un atleta: credere nella capacità di essere se stesso, aprendo le porte di una interiorità che ha un estremo bisogno di esprimersi. Basta poco per capirlo, basta ripassare la storia sportiva di questo campione varesino, uscito dall’incanto delle montagne prealpine, per inseguire un sogno, per rendersi conto della dimensione di un’impresa. Il “diablo”, un atleta mai noioso, mai incollato alle convenzioni, capace di pensare e di agire con la propria testa, proprio mentre altri si lasciano irretire e condizionare, limitando il loro desiderio d’infinito. Un “diablo” che va controcorrente, perché sa che la verità ha sempre due volti e bisogna leggerla e interpretarla, lasciandola libera di realizzarsi. Chi mai avrebbe potuto andare in fuga per duecento chilometri, con sei colli da scollinare senza l’aiuto di nessuno? Chi avrebbe potuto immaginare di reggere le sorti di una battaglia da solo, inseguito da un piccolo esercito di cacciatori “affamati” di prede? Nessuno! Eppure il “diablo” ha fatto anche questo, arrivando sul traguardo del Sestrière solo, immerso in un boato di folla. Vederlo incollato alla sua Carrera, mulinare i muscoli con un sorriso solare stampato sul viso, proiettato nel profilo di splendide montagne, Chiappucci, il campione di Uboldo in provincia di Varese, ci ha insegnato che l’eroismo, quello vero, quello dal volto umano, bisogna saperlo amare uscendo da schemi e strategie, valorizzando al massimo quella libertà personale, che ha bisogno di aria e di molto ossigeno per potersi aprire in tutta la sua armonia espressiva.

Claudio, un ricordo della magnifica tappa del Sestrière.

Un risultato che resta nella storia e che non è stato programmato.

In quei momenti a cosa pensavi?

I pensieri in quei momenti sono tanti, pensi alla gara, a cosa stia succedendo dietro di te, pensi se valga la pena aspettare o continuare, pensi anche a cosa possa succedere alla fine della tappa. I pensieri sono davvero tantissimi. Sei ore da solo davanti sono ore di ragionamenti, un tempo infinito e te ne passano mille di pensieri, cerchi di convincerti che ce la puoi fare e che è arrivato il momento di dimostrare a te stesso e ai tuoi tifosi come sei fatto e così dai fondo al tuo carattere e ce la metti tutta per ottenere il risultato.

Eravamo tutti emozionatissimi, pedalavamo idealmente con te.

Si è trattato di una tappa unica nel suo genere, posso capire quindi lo stato d’animo dei tifosi e di tutti coloro che l’hanno seguita davanti al video.

Claudio, come hai vissuto il tempo della pandemia?

È stato un periodo di riflessione. Mi sono rimesso in forma, l’ho vissuto con lo spirito di chi cerca sempre di essere se stesso e di non lasciarsi sopraffare dagli eventi, drammatici come in questo caso. Ho cercato di mantenere il mio equilibrio, sfruttando l’occasione per mettere ordine nelle mie cose.

Il ciclismo è un amore eterno?

L’amore non è uguale per tutti. Può diventare eterno per quelle persone forti che, abbandonata la professione come nel mio caso, sanno mantenere accesa quella passione che è stata alla base di tutto.

Come vivi oggi il tuo amore per la bici?

Facendo bici, aprendo gli orizzonti a qualcuno. Quando correvo guardavo gli avversari e la corsa, oggi mi diverto a ripercorrere quelle strade sulle quali ho corso durante il professionismo, con uno spirito diverso. Mi lascio affascinare dal paesaggio, dalla bellezza di una salita, dalla bellezza dei borghi che ho attraversato quando correvo, mi lascio sedurre dalla parte culturale della mia attività passata, oggi la posso raccogliere e contemplare con una diversa disposizione d’animo e quindi con una passione che si colora di nuovi particolari.

Segui ancora il Giro d’Italia?

Seguo ancora molto il ciclismo, vado come testimonial di alcune tappe per commentarle, lo vivo ancora come se fossi dentro, anche se oggi sono più attratto da situazioni diverse rispetto a quelle a cui ero abituato. Sono invitato spesso a iniziative collaterali al Giro, mantengo quindi uno stretto rapporto con quel mondo che mi ha dato molte soddisfazioni.

Che giudizio dai su questo Giro d’Italia?

È un Giro equilibrato, dove non c’è un padrone, è un Giro dove ci sono tanti pretendenti. Oggi si vive un ciclismo un po’ diverso da quello classico cui eravamo abituati noi.

Qual è il tuo punto di vista sull’attuale organizzazione del ciclismo? Non si vedono all’orizzonte grandi campioni nazionali, come mai?

È cambiato il modo di interpretare il ciclismo, non c’è più la continuità di una volta, si fanno scelte più di natura stagionale, legate ai periodi. Nel ciclismo classico c’era un contatto più diretto e continuativo con la gente, dalla prima corsa all’ultima, era un ciclismo più vivo, più fisico, mancano un po’ le rivalità, oggi è tutto più inquadrato. Un tempo c’erano forse più spontaneità, più naturalezza, più istinto.

Miguel Indurain ha detto: “Le mie vittorie non sarebbero state così belle, se non avessi avuto un avversario come Chiappucci”.

È una dichiarazione bella, positiva, che mi valuta come avversario, io avrei detto la stessa cosa di lui. Senza Miguel Indurain avrei vinto qualche Giro in più. Lui è stato valorizzato molto dalle cronometro, che mettevano in risalto le sue caratteristiche. Io ho sempre dovuto lottare, però quando lotti fino alla fine, fai sempre bella figura.

Sei stato grande, perché sul tuo cammino hai incontrato campioni come Lemond, Indurain, Bugno, Pantani. A proposito di Marco, che a me piaceva tantissimo, che ricordo hai?

Io ho vissuto i suoi primi anni di professionismo, l’ho visto crescere come corridore, l’ho visto nelle sue difficoltà, nelle cadute, nelle vittorie. All’inizio ha fatto un po’ fatica a inserirsi, poi è uscito fuori con la sua classe. Era molto concentrato, molto caparbio, non lasciava mai nulla al caso, era un corridore destinato ad emergere.

Eravate un po’ simili sotto il profilo tecnico?

Sì, avevamo caratteristiche similari, soprattutto nel modo di interpretare le salite. Sulle grandi salite abbiamo costruito entrambi la nostra storia, quella che appassionava i tifosi, ma anche la gente comune, quella che guarda il ciclismo anche solo per provare un’emozione.

A chi ti sei ispirato quando hai iniziato a correre?

Inizialmente a Fausto Coppi, perché mio papà l’aveva conosciuto a militare e me ne parlava spesso. Tra i corridori che mi piacevano in modo particolare c’era Bernard Hinault, il suo modo di essere, il suo modo di interpretare la corsa.

Chi è il campione, come nasce?

Un campione nasce, a volte, anche un po’ per caso, strada facendo, frequentando livelli piuttosto alti. Ecco, quando uno impara a stare a un livello alto, allora apprende più velocemente e mette in campo tutte quelle risorse e quei talenti che madre natura gli ha consegnato e che gli consentono di esprimere al massimo le proprie potenzialità. Il campione di solito non ha gli alti e bassi, è sempre presente, è una figura carismatica, che si sa destreggiare in ogni situazione e in ogni momento. È un punto fermo.

Il pubblico ti ha sempre amato moltissimo non solo in Italia, ma in Francia, in Spagna e un po’ ovunque in Europa, per quale motivo?

Era attratto dal mio modo di correre, di attaccare, di sorridere, di faticare. A me non è mai piaciuto il ciclismo addormentato, ogni tappa era molto importante, per questo dovevo sempre dare tutto. Le mie impennate piacevano alla gente, il mio uscire dai canoni di un ciclismo troppo classico e misurato stupiva ed emozionava. Il ciclismo si giocava molto sull’impresa, sulla capacità di cogliere di sorpresa il pubblico, di stuzzicare la sua voglia di sognare. La passione sportiva nasce dalla fantasia e dalla versatilità di chi la sa interpretare e realizzare.

Cosa pensi dei “treni”, non credi che questo tipo di corsa rischi di creare monotonia e ripetitività?

Purtroppo è così, perché il sistema attuale è fatto di questo, ci si basa molto sulla compattezza della squadra, sullo stare vicini, non è più come una volta, quando ciascuno, dentro la squadra, cercava anche una gestione personale della corsa.

In passato c’era più spazio per la fantasia?

Era uno degli aspetti che faceva la differenza.

E di Nibali cosa pensi?

È un corridore che può dire ancora la sua in ogni tappa. Sta attraversando un momento evolutivo, si sta gradualmente avviando verso la parte finale della sua carriera, ma è sempre un uomo di classifica. È stato sfortunato per la caduta poco prima del Giro, ha subito un’operazione delicata al polso, ma si è ripreso con grande coraggio e con grande energia, dimostrando di essere un vero combattente. Sono convinto che possa puntare a una vittoria di tappa, credo che la sua presenza possa essere di incoraggiamento soprattutto per i giovani.

Com’è oggi il rapporto con i tuoi tifosi?

Li incontro sempre quando vado a fare eventi o manifestazioni, la stima e l’amore per quello che ho fatto e per come l’ho fatto, sono sempre uguali, non è cambiato nulla rispetto al passato.

Qual è la parte migliore del ciclismo ?

Senz’altro quella che si lega alle pubbliche relazioni, alla stima che la gente nutre nei tuoi confronti, alla gioia che riesci a trasmettere, a quello che riesci a fare per il tuo paese. La parte migliore è anche quella che si lega al movimento, alla imprevedibilità di un’azione. La gente capisce benissimo quando dai tutto quello che hai, quando scatti e con il tuo scatto costruisci una storia destinata a rimanere negli annali.

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