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Attualità

RE VIRTUALI

SERGIO REDAELLI - 11/06/2021

Amedeo d'Aosta con la sua linea di vini all'epoca della Tenuta del Borro (Foto Massimo Sestini)

Amedeo d’Aosta con la sua linea di vini all’epoca della Tenuta del Borro (Foto Massimo Sestini)

“Prima di parlare di monarchia bisognerebbe tirare fuori il trono e spolverarlo”. Amedeo di Savoia Aosta liquidava con una battuta la questione della successione al titolo, virtuale, di re d’Italia. Amedeo o Vittorio Emanuele? Aosta o Savoia? Il cugino simpatico o quello antipatico? Il capo della Real Casa riconosciuto dalla consulta dei senatori del regno o il discendente diretto di Umberto II? Ora che il quinto duca d’Aosta è morto, la responsabilità di rivendicare il titolo di ipotetico erede al trono tocca al figlio Aimone, nato nel 1967 dal primo matrimonio con Claudia d’Orléans, brillante manager, laureato alla Bocconi. Vittorio Emanuele permettendo, naturalmente.

Tra i due cugini (di terzo grado) non era mai corso buon sangue, anzi sono sempre stati come cani e gatti, a giudicare dai due pugni che Vittorio Emanuele sferrò al cugino alle nozze di Felipe di Spagna a Madrid. Avvelenato dalla rivalità, il rapporto si è trascinato fra liti, ingiunzioni del tribunale, richieste di risarcimento e ricorsi in Cassazione. Chi dei due aveva diritto ad ambire al titolo? La questione è controversa. Le Regie Patenti del 1780 e del 1782 dispongono che i matrimoni dei principi di sangue reale devono avere il consenso del sovrano e Umberto II di Savoia non diede mai l’assenso alle nozze del figlio Vittorio Emanuele con la borghese Marina Doria, figlia di un industriale dolciario svizzero.

Per questa ragione Vittorio Emanuele avrebbe perso il diritto alla successione. Una tesi naturalmente contestata dal diretto interessato, secondo il quale l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ha annullato gli effetti delle norme sui matrimoni reali. Vittorio Emanuele sostiene che la prova per eccellenza del fatto che sia lui il capo della Casa è dato dall’esilio inflittogli fino al 2002 dall’ordinamento repubblicano. La XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione sanciva infatti che “agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi, sono vietati l’ingresso e il soggiorno” in Italia. E cita ad abundantiam la legittimazione dinastica verbale che Umberto II avrebbe fatto alla nascita del nipote Emanuele Filiberto.

Amedeo, nipote dell’eroe dell’Amba Alagi, pronipote della regina Vittoria d’Inghilterra e imparentato con le principali famiglie reali europee, era nato il 27 settembre 1943. Lo storico Silvio Bertoldi, nel libro Aosta gli altri Savoia, dice che aveva “gli occhi tipici della sua famiglia, eccellente cultura, conoscenza delle lingue, spericolatezza sportiva, la saggezza di una vita modesta e attiva, gusti semplici e tratti di grande finezza”. Amava il mare, aveva studiato al collegio navale Morosini di Venezia e all’accademia di Livorno, ma poi scelse di vivere in campagna, sulle dolci colline toscane: faceva l’imprenditore agricolo e il produttore vitivinicolo nella tenuta del Borro a S. Giustino Valdarno, poi venduta alla famiglia Ferragamo.

Da vent’anni si era trasferito a Castiglion Fibocchi dove era nato, nell’Aretino, con la seconda moglie Silvia Paternò di Spedalotto. Produceva vino con il marchio Savoia Aosta. Nel periodo di massimo fulgore era arrivato a produrre 300 mila bottiglie con un fatturato di tre miliardi di lire. Tra i clienti migliori, unità militari della marina, dell’esercito e dell’aeronautica. Il marchio con lo stemma della famiglia reale era diventato oggetto di collezione. Mario Cuomo, il governatore dello stato di New York dal 1983 al 1994, acquistò una bottiglia a mille dollari durante un gala benefico.

Amedeo era il preferito di Umberto II, il Re di Maggio. “Un uomo di grande signorilità che mi ha fatto da padre e da zio avendo perso mio padre Aimone a quattro anni – dichiarò Amedeo in un’intervista a V&L nell’aprile 1995 – Una volta, avendo io pubblicamente espresso dubbi sull’esito del referendum del 1946, mi invitò a evitare qualunque polemica. Una lezione di stile. Ebbe anche a dirmi che sarebbe rimasto in Italia solo se al referendum la monarchia avesse raggiunto la maggioranza assoluta. La repubblica viceversa si contentò di una vittoria risicata. E i brogli ci furono davvero. Quattro giorni dopo il voto De Gasperi affermò che aveva vinto la monarchia”.

Amedeo è morto alla vigilia del 75° anniversario del 2 giugno 1946 che decretò vincitori e vinti nel referendum. Un esito che non lo aveva mai convinto. Sulla base di quali prove? “Quando un mese più tardi venne chiesta la verifica dei voti, molte schede erano già state bruciate. Le prove potrebbero arrivare da un’analisi approfondita dei dati dell’ultimo censimento. Potrebbe emergere, per esempio, che nel ‘46 ci furono più voti che elettori”. La tesi che non tutto fosse chiaro è condivisa da Vittorio Emanuele con altri argomenti: il referendum fu “incompleto” perché in alcuni territori del Regno d’Italia non fu possibile votare e a molti connazionali prigionieri all’estero non fu permesso di accedere alle urne.

Non si votò, secondo il principe, in alcuni territori italiani ancora non completamente liberi e al voto non poterono partecipare molti italiani che, per essersi rifiutati di collaborare con i tedeschi, si trovavano ancora nei campi di prigionia all’estero. Uniti, i due cugini, anche nella stima per Umberto a cui Vittorio Emanuele riconosce di avere rinunciato alla corona per salvare la pace sociale e i confini d’Italia: “Mio padre partì di propria volontà per il temporaneo esilio pur di smorzare le tensioni di un Paese diviso in due e con le truppe jugoslave di Tito schierate sul confine orientale, decise a intervenire in caso di vittoria monarchica”. Per il resto parenti serpenti.

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