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Opinioni

PARADOSSALE

ROBI RONZA - 16/07/2021

ilvaLo scorso 1° luglio il Wwf e un locale Comitato per la Salute hanno chiesto di nuovo il fermo dell’«area a caldo» delle acciaierie di Taranto in Puglia, un provvedimento che ne provocherebbe la chiusura. L’episodio conferma ancora una volta quale paradossale partita si stia giocando ormai da decenni riguardo al principale stabilimento di un’azienda che, oltre a essere la maggiore d’Europa nel settore, nel 2016 dava lavoro in Italia a 14.690 persone, oggi ridottesi a 8.200, e aveva fatturato 2,2 miliardi di euro.

È ovvio che l’industria deve rispettare l’ambiente e che la siderurgia pone specifici e complessi problemi al riguardo. Un tempo infatti non c’era la sensibilità ambientale che per nostra buona sorte c’è adesso. Quindi non solo il padrone cattivo, ma tutti quanti — governo, operai e sindacati compresi, — erano d’accordo nel ritenere che la certezza del lavoro fosse più importante della certezza della salute. Perciò il risanamento di siti industriali come appunto quello di Taranto, inaugurato nel 1965, è un’operazione particolarmente complicata e costosa. Tutto ciò fermo restando, si tratta poi di decidere se si vuole o no che l’Italia continui a essere, come dicono le prime parole della sua Costituzione, “una Repubblica fondata sul lavoro”.

E’ evidente che nel caso delle acciaierie di Taranto sono in campo forze sia locali e sia nazionali per le quali la questione del loro risanamento ambientale non è tanto un problema da risolvere quanto un ottimo pretesto su cui fare leva per arrivare alla chiusura dell’impianto. In più con la pretesa che alle migliaia di persone che quindi perderebbero il lavoro lo Stato garantisca ciononostante un posto fisso trasformando miriadi di operai metallurgici disoccupati in addetti a vita a un risanamento ambientale senza fine nonché a future eventuali attività produttive “amiche dell’ambiente”. Quella che insomma si sta combattendo a Taranto è una delle tante battaglie dell’eterna guerra che in corso fra i due grandi blocchi sociali in cui si articola la società italiana, l’uno composto da chi punta a vivere di lavoro produttivo e l’altro da chi invece spera soprattutto nell’aiuto dello Stato: le due “comete” l’una con la testa a Milano e l’altra con la testa a Roma, le cui code serpeggiano intrecciandosi in tutto il resto del territorio. È la situazione che rende l’Italia spesso così indecifrabile a chi la guarda dall’esterno con le sue eccellenze da un lato e le sue carenze dall’altro.

Dopo esser passata nel tempo in varie mani sia private che pubbliche l’azienda, nata nel 1905 a Piombino in Toscana e già nota col nome di Ilva, si chiama adesso Acciaierie d’Italia. L’azionista di maggioranza è la grande multinazionale siderurgica franco-indiana Arcelor-Mittal la quale però dal 15 aprile scorso ha ceduto ufficialmente la direzione e il coordinamento dell’azienda all’ex-proprietario, ora ricomparso in scena come socio di minoranza: lo Stato italiano, che detiene il 38 per cento delle azioni tramite L’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, nota col nome di Invitalia.

Arcelor-Mittal, che nel novembre 2018 aveva comprato l’ex-Ilva dallo Stato italiano, si era evidentemente decisa a fare tale passo indietro nella speranza di poter più facilmente superare l’opposizione del blocco di forze che vogliono la chiusura delle acciaierie, alla testa delle quali è la Procura della Repubblica di Taranto. Nel corso degli anni la Procura ha fatto di tutto per costringere l’acciaieria a chiudere. Tanto per dirne una, arrivò anche a bloccare i prodotti dell’azienda già pronti per la spedizione ai clienti ponendoli sotto sequestro in quanti “corpi de reato”.

Quando sta accadendo sembra però dimostrare che nemmeno il ritorno in scena dello Stato italiano, in veste di socio di minoranza ma con poteri di direzione e coordinamento, sia un parafulmine sufficiente. Lo scorso 31 maggio il tribunale di Taranto, al termine di un processo durato cinque anni, ha condannato in prima istanza per disastro ambientale gli ultimi proprietari privati dell’acciaieria, i fratelli Nicola e Fabio Riva, rispettivamente a 20 e a 22 anni di carcere disponendo anche la confisca dell’impianto e la confisca ai Riva di beni personali per 2 miliardi e 100 milioni di euro. A tre anni e mezzo di carcere è stato pure condannato l’ex-presidente della Puglia Nichi Vendola. Sulle eventuali responsabilità dello Stato italiano, proprietario dello stabilimento di Taranto per la massima parte della sua storia, il tribunale non si è invece soffermato.

www.robironza.wordpress.com

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