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Artemixia

LA GONNA DI TULIPANI

LUISA NEGRI - 23/07/2021

negriIl mio primo spicchio di mare, intravisto da un’auto scoperta, era parte dell’Adriatico, spiaggia di Igea Marina. Era l’alba, avevo quattro anni, e la mia famiglia era stata accompagnata lì in macchina da un amico di papà.

Negli anni immediatamente successivi ci saremmo tornati col treno, dopo un viaggio lungo e affollato di immagini. Ricordo sfilare dietro il finestrino i larghi cappelli di paglia delle contadine intente alla fienagione nei campi, i filari delle piante di frutta, e poi di nuovo, alla fine del viaggio, il treno svelava lame azzurre di mare.

In seguito avrei visto, quel mare dove non eravamo più tornati, solo in cartolina, come recitava una canzone. O meglio, frugando tra le vecchie foto di casa, scattate da un fotografo di spiaggia. L’istantanea di tre bambini -perché Maria Pia, l’ultima sorella, non era ancora arrivata- era stata realizzata in due scatti e due formati diversi. Una copia in formato cartolina, ritrovata qualche anno fa, mamma l’aveva spedita anche alla nonna, con affettuose parole di accompagnamento. Rileggendo quelle frasi scritte in perfetta grafia, mi parevano -ma ancora oggi lo penso- una richiesta di attenzione a una madre, invecchiata dai lutti e dai problemi, che non aveva avuto mai troppo tempo per la famiglia costruita da sua figlia sull’affetto verso tutti e sull’amore per un giovane collega di banca. Timido e riccioluto, lui aveva conosciuto mia madre prima della partenza per la guerra. E lei lo aveva poi ritrovato, uomo fatto, come si diceva una volta-e dopo che tutto era finito-, con molti capelli in meno. Ma raccontava che così le era piaciuto anche di più.

La foto spedita alla “cara nonna Beatrice, con tanti baci” ci ritraeva in spiaggia, nei costumini di allora, in lana, fatti confezionare a macchina per tempo, molto prima della partenza. Il colore era un mélange tra il grigio e il beige. L’istantanea in bianco e nero non rivelava le differenze cromatiche ma restituiva ugualmente, nel mio vivido ricordo, quel momento di felicità con tutti i colori della realtà che mi era sfilata sotto gli occhi di bambina: nei bracciali di plastica tondi stretti ai polsi, che sfoggiavamo con un certo sussiego, nei sorrisi che scoprivano i nostri dentini candidi di latte, nelle strisciate di luce della frangetta mia e di Giovanna, e dei riccioli di Maurizio, biondo come un piccolo tedesco. Aveva due anni e stringeva tra le braccia un pallone, tutto suo, a spicchi vivaci.

Quelle estati marine, che non avremmo più avute, perché le scelte familiari successive furono sempre per la vacanza in montagna, mi avevano lasciato un ricordo e una gran voglia di mare. Che si tramutava in attesa quando sentivo i racconti marini delle mie compagne di scuola. Solo a diciotto anni avrei ripreso di nuovo il contatto con l’acqua salata, quando imparai finalmente a nuotare e a scoprire il piacere di quell’abbraccio che ti avvolge e sostiene e rimette in salute.

Ricordavo anche le grandi camerate della colonia estiva dove s’aggirava zia Elena, detta Lena, sorella di papà e amatissima cognata di mamma. Era una ottima maestra, vedova di un marito galantuomo tornato malato dal confino inflittogli dal fascismo. Bisognosa di mantenere l’unico figlio rimastole -il secondogenito, Enzino, era morto a otto anni fulminato sulla terza rotaia- fungeva da accompagnatrice e assistente per le colonie estive romagnole.

Un po’ mi intristivano quei bambini che erano lì, senza i genitori, e la sera avevo visto riposare nei letti di ferro sotto lunghi veli di tulle che li tenevano al riparo dalle colossali zanzare. Mi davano un senso di disagio anche gli enormi recipienti di marmellata – a me non era mai piaciuta- che sapevo utilizzati per la colazioni del mattino. E l’odore della minestra che girava nell’aria.

Ma il mare, quel grande mare che incontravo in spiaggia ogni giorno, con la sua grossa voce di vento, mi pareva qualcosa di ineguagliabile. Lo ascoltavo nelle conchiglie che portavo agli orecchi, lo annusavo nell’odore penetrante dell’aria, lo vedevo insinuarsi e brillare in improvvisi rivoli tra la sabbia e i castelli che tutti costruivamo, solo per il piacere di farli cadere e poi ricominciare.

Papà si alzava presto la mattina per comperare il pesce fresco dalle barche dei pescatori. Poi ci accompagnava in mare col moscone, lo vedo nel ricordo destreggiarsi coi remi come un provetto marinaio. Non provavo alcuna paura con lui sempre vicino a noi. Grande era anzi il divertimento di quelle escursioni in acqua. Mentre mia madre si dedicava al piccolino.

Avevamo affittato una casetta vicino alla colonia e i proprietari ci aiutavano in tutti i modi. Veniva una ragazza a dare una mano per la spesa. Silvana, cosi si chiamava, bella e gentile, era anche una brava sarta e aveva cucito per mia madre una gonna, nera con una fantasia di tulipani colorati e una camicetta verde con uno scollo a cuore. Mi piacevano quei tulipani. e anche mamma adorava il completo che si tenne caro e indossò per anni. L’avrei vista allattare mia sorella con la camicetta verde addosso. E il seno le traboccava candido da quello scollo a cuore.

Alcune ragazze, figlie di contadini, capeggiate dalla riccioluta Norma, accompagnavano me e mia sorella, il pomeriggio, nella campagna circostante. Ci avevano insegnato ad aprire i baccelli e assaggiare i piselli crudi. Li mangiavano di gusto, forse perché li sentivano come frutti proibiti. Queste spedizioni furtive cessarono appena raccontammo a mamma, con soddisfazione, che tra un assaggio e l’altro le nostre accompagnatrici ci facevano accostare l’orecchio ai pali della ferrovia per sentire se il treno fosse in arrivo oppure no. Non mi dispiacque di non andarci più, un po’ per quei piccoli furti segreti di legumi, ma soprattutto perché sentivo di subire troppo il caldo rovente della campagna mentre sulla spiaggia la brezza mi carezzava e assopiva.

Negli anni ho avuto il piacere di conoscere altri mari, il Ligure fu il primo, profondo subito e meno sabbioso dell’Adriatico. Ma il clima più mite mi attirava maggiormente e lo frequentai poi per sempre.

A farmelo conoscere era stata Alda, compagna e amica di tanti anni. Ci andammo insieme subito dopo la maturità, scortate dalla mamma di lei. Ci arrivammo proprio mentre l’uomo scendeva sulla luna. Era il 20 luglio del 1969, e a Finale Ligure qualche goccia d’acqua aveva accompagnato come in un battesimo l’avventura di Armstrong e compagni. Impossibile dimenticarselo.

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