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Cultura

IL CORAGGIO DELLA STORIA

CESARE CHIERICATI - 23/07/2021

Hailé Selassié

Hailé Selassié

Alcuni anni fa raggiunsi Angelo Del Boca, maestro e amico morto il 6 luglio scorso all’età di novantasei anni, nel suo rifugio di Crodo in Valle Antigorio, dove affondano le radici paterne della sua famiglia. Di tanto in tanto si ritirava lì tra la montagne per qualche giorno di vacanza nel tentativo, vano peraltro, di staccare dal suo impegno di ricercatore e storico a tempo pieno. Era reduce da alcune conferenze all’Università di Tripoli ancora capitale indiscussa dal panafricanismo gheddafiano.

Pur con tutte le riserve del caso riteneva Gheddafi, di cui aveva scritto (1998) una documentatissima biografia fondata su una rocambolesca intervista realizzata nella mitica tenda del colonnello, il personaggio centrale della scena politica africana e l’unico leader del continente nero conosciuto in tutto il mondo. “Tuttavia non posso negare –aggiunse – la grande delusione che provo ogni volta che, per ragioni di studio torno in Africa. Negli anni sessanta ero talmente coinvolto nelle speranze degli africani fino al punto di credere che l’indipendenza politica fosse la chiave di tutto invece, salvo due o tre paesi, nessun Stato ha raggiunto l’indipendenza economica”.

La passione per l’Africa e per i suoi grandi e complessi problemi è stata il filo rosso dell’intera vita di Del Boca, intellettuale torinese di gran razza. Una passione declinata in due momenti professionali distinti ma sempre profondamente collegati: quello del giornalista e quella dello storico. Partigiano a soli diciotto anni nel piacentino, scrittore precoce di limpido stile (“Nella notte ci guidano le stelle”, un diario partigiano) e cronista alla Gazzetta del Popolo di Torino. Giovanissimo ne divenne “inviato speciale” con destinazione preferenziale l’Africa, in particolare l’ex Africa italiana.

È in quei primi viaggi finalmente affrancati dalla propaganda fascista e dal neo imperialismo mussoliniano che scopre, studiando i documenti negli archivi libici, etiopici, somali e ascoltando centinaia di testimoni, le verità nascoste di un colonialismo italiano per nulla diverso da quello degli altri paesi colonialisti europei, spacciato invece, da alcuni ancor oggi, come meno feroce e più rispettoso delle realtà indigene.

Quando nel 1968 approda al Giorno in veste di capo redattore, quanto conosciuto, vissuto e raccontato da “inviato speciale” diventa punto di partenza e stimolo per un lavoro di ricerca storica stringente, ostinato, senza alcun cedimento di fronte ai dinieghi striscianti degli archivi dei Ministeri italiani – quello degli Esteri gli imporrà sei anni di anticamera- e dell’Esercito repubblicano. “Facendo parlare le carte”, come amava dire con un pizzico di giustificato orgoglio, ha dimostrato che nella campagna d’Etiopia, fin dall’ottobre 1935, era stato previsto e autorizzato l’impiego dei gas nervini, armi micidiali già allora proibite dalla Convenzione di Ginevra. Una scelta di Benito Mussolini in persona notificata al Maresciallo Pietro Badoglio e al generale Rodolfo Graziani, puntualmente condivisa e attuata. Del resto gas nervini, bombe caricate a iprite e granate per l’artiglieria erano state preventivamente stivate negli arsenali e nei depositi eritrei prima della dichiarazione di guerra.

A questa drammatica verità storica dedicò un lavoro specifico “I gas di Mussolini. Il fascismo e la Guerra d’Etiopia” (Editori Riuniti 1996) con testi anche di Giorgio Rochat, grandissimo esperto di storiografia militare e di altri storici. A quel punto persino l’irriducibile Indro Montanelli, ufficiale di complemento sui campi di battaglia etiopici nella prima parte del conflitto, cantore del mito consolatorio degli “italiani brava gente” si arrese alle argomentazioni di Del Boca riconoscendo con onestà, sia pur tardiva, il proprio errore. In complesso dagli scritti di Del Boca emerge una realtà cruda, terribile, dove violenza chiama violenza nella serrata contrapposizione tra chi rivendica un ruolo scelleratamente civilizzatore e chi difende la propria terra e la propria identità. In questa drammatica forbice si inseriscono, in Libia come in Etiopia, le deportazioni, le esecuzioni sommarie, le stragi che punteggiano quell’ultima sciaguratissima avventura coloniale del fascismo. In linea peraltro con la politica coloniale giolittiana degli anni ’10 del novecento.

Per chi tuttavia volesse conoscere più a fondo Angelo Del Boca nella sua sobria ma ricca umanità, il volume che meglio lo racconta è senz’altro “Un testimone scomodo” (Grossi editore, Domodossola), “un diario in pubblico” come lui stesso amava definirlo precisando: “ Non è un autobiografia, ma una testimonianza di vita personale e pubblica scandita da fatti minuti e da avvenimenti epocali, da amicizie e cesure, da gente qualunque e personaggi incredibili come l’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié e il colonnello Gheddafi”. Del Negus conservava una memoria nitida, direi quasi affettuosa. Diceva: “era un uomo di straordinaria cultura, di grandi letture, parlava un francese splendido appreso e perfezionato col vescovo cattolico della capitale.

Di lui molti dicono che in fondo era un reperto barbarico, un uomo del Medioevo, giudizi che possono anche starci senza dimenticare però che quell’uomo, erede di uno stato feudale, riuscì nel 1924, a farlo ammettere alla Società delle Nazioni. Certo non riuscì a trasformarlo in uno Stato moderno ma non ci sono riusciti nemmeno quelli venuti dopo di lui. Oggi in quelle terre si sta peggio di prima”.

La familiarità col Negus gli valse l’apertura e l’accesso incondizionato agli archivi di stato e a quello personale dell’imperatore. Del Boca – come ha ricordato il Manifesto – scriverà un best seller a livello internazionale: “Il Negus. Vita e morte dell’ultimo Re dei Re” edito da Laterza nel 2007. Sarebbe comunque un torto alla sua memoria non ricordare infine come da giovane inviato speciale abbia raccontato senza reticenze la guerra d’Algeria con le sue tremende atrocità. Per questa ragione la Francia lo dichiarò “persona non gradita” e lo espulse.

La stessa cosa accadde in Sudafrica dopo un’intervista non autorizzata al Premio Nobel Lutuli. Da quel lungo viaggio ricavò un saggio che in Italia fece scalpore: “Apartheid, affanno e dolore” (Bompiani, 1960) dove si svelava la dottrina dell’ineguaglianza e la sua sistemazione giuridica, si documentavano con rigore le oppressioni e le umiliazioni imposte dalla complessa macchina della segregazione razziale alla popolazione nera costretta a vivere nelle township, immensi lazzaretti civili che ricordavano i lager nazisti.

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