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Parole

PROATTIVITÀ

MARGHERITA GIROMINI - 29/10/2021

proattivitaLa parola, importata dal linguaggio aziendale, negli ultimi tempi è diventata di uso più comune. A me piace, diversamente da tante altre prese in prestito dalle teorie manageriali.

Proattività propone l’ampliamento di un concetto che conduce a un salto di qualità: dall’essere attivi al diventare proattivi. Nel suo significato etimologico è la capacità di anticipare i problemi, di gettare lo sguardo al di là dell’immediato visibile, di saper pensare azioni che creino il terreno fertile per raggiungere determinate mete.

Proattività comporta la marcia in più di chi sa andare “oltre”. Il concetto non è nuovo, al di là della parola che lo definisce oggi.  Lo troviamo nelle parole pronunciate da John Fitzgerald Kennedy a Washington, il 20 gennaio 1961, durante la cerimonia del giuramento come 35º Presidente degli Stati Uniti: «È sicuramente tempo di mutar rotta, è tempo di destarsi, di stare all’erta, di mostrar vigore, di non rimasticare più le stesse frasi fatte, di non pestare più le stesse tracce … Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese».

Chi è proattivo si chiede se può fare più di quello che ha fatto finora per rendere il mondo un posto migliore. Nel dopo pandemia, in questo momento che appare di ripresa e di annunciata crescita non solo economica, non possiamo limitarci al solo compimento del nostro dovere. Anche se ci riteniamo persone già attive, donne e uomini consapevoli del proprio posto nella società, questa è l’ora di arricchire lo status di cittadini corretti e responsabili e impegnarsi a fare di più.

Sono tanti i comportamenti che ci possono rendere proattivi. Pago le tasse, mi reco al voto, esprimo il mio parere nelle sedi proprie, sono un buon genitore, rispetto il prossimo, guadagno lo stipendio che ricevo, amo il mio lavoro. Sono un bravo cittadino. E’ sufficiente? No, perché oggi il mantenimento e la maturazione della democrazia richiedono dosi supplementari di impegno.

Se l’esperienza della pandemia ci ha insegnato qualcosa, se abbiamo interiorizzato il principio, citato da tanti saggi, in primis il presidente Mattarella e Papa Francesco, che non ci si salva da soli, allora capiamo che non basta l’assolvimento del principio liberale basato sull’affermazione che «la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri».

Nella nostra società sono ben accetti slogan libertari ma un po’ ipocriti contrassegnati da acrostici anglosassoni, come “NIMBY” – Not In My Backyard (non nel mio cortile) – che mettono in luce comportamenti di tipo individualistico. E’ evidente che nessuno vorrebbe per sé, vicino a casa propria, una discarica, una centrale magari nucleare, o un sito di raccolta di rifiuti. Ma a chi dovrebbe toccare il “disturbo” di tali impianti non viene detto. Bisogna ampliare la propria percezione del mondo; acquisire un atteggiamento proattivo a costo di maggiori sacrifici; mettere in atto lo sforzo di un impegno più diretto, che dia risposta alla sollecitazione di Kennedy: si faccia qualcosa per il proprio Paese, per il proprio villaggio, per la società.

Non so se è cinese o meno il proverbio che recita “Pulisci davanti all’uscio di casa e tutta la città sarà pulita”. Nella sua banale verità ci ricorda che con il contributo di tutti potremmo vivere in un mondo più accogliente. Dunque, come posso contribuire io? Dedicando tempo all’incontro con gli altri, discutendo civilmente dei problemi, provando a immaginare un futuro accettabile per le prossime generazioni.  Cominciando a far cadere in disuso affermazioni che suonano corrette ma solo sul piano giuridico: «Non spetta a me, non sta nel mio mansionario, non sono un missionario, non faccio nulla fuori dalle mie ore di lavoro».

La proattività è spingersi oltre i propri limiti, è avere progetti da sognare, è coltivare visioni, è immaginare anche uno solo dei tanti modi per rendersi utili all’umanità.

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