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Artemixia

SE QUESTO È UN BAMBINO

LUISA NEGRI - 26/11/2021

Maria Antonietta con i suoi figli

Maria Antonietta con i suoi figli

Avete presente il quadro di Élisabeth Vigée Le Brun dove è ritratta la Regina Maria Antonietta di Francia con i suoi figli?

Élisabeth era una ritrattista formidabile, molto raffinata, e capace di cogliere la bellezza soave dei bambini fissandola nelle sue tele con la grazia rubata all’arte di Raffaello, di cui era fervente ammiratrice.

Dovendo scegliere un’artista che ha saputo raccontare con amore e bravura l’infanzia, una delle più felici mani è proprio la sua. Abitini in voile, cappellini di paglia col nastro fiorato, gilerini in raso, giocattoli e piumosi uccellini in gabbia sono i deliziosi particolari che illuminano la quotidianità di innocenti visi di porcellana.

Tanta bellezza ci racconta però anche il rovescio amaro della medaglia: il destino bieco, universale e infinito nel tempo, della storia che irrompe nella vita dei bambini, vittime innocenti, portando lutti e paura, sofferenze infinite e dolori, fisici e morali. Questo accadde anche ai figli di Maria Antonietta, capro espiatorio della storia in cui centrale fu il ruolo interpretato dalla famiglia del consorte Luigi XVI, ghigliottinato con lei nella barbarie della rivoluzione francese.

La Vigée Le Brun, pittrice di corte e amica della regina, che lei ritrasse, accanto ai suoi graziosi figli, più e più volte, anche al fine di conquistare alla straniera Maria Antonietta gli animi dei sudditi, dovette a sua volta fuggire, in Italia e in altri paesi, per salvarsi.

La storia corre, ma le barbarie restano.

Il 20 novembre si è celebrata la giornata internazionale del bambino, e strideva questo affannarsi dei media a ricordarlo. Vediamo sempre più bambini e bambine dai visi soavi finire male: abbandonati agli eventi della storia, all’incuria dei più, alla reazione feroce di quanti sostengono diritti che collimano col più vieto egoismo.

E proprio in quei giorni un bambino moriva al confine tra Bielorussia e Polonia, assiderato dal freddo nella foresta in cui si trovava da sei mesi. I genitori erano stati entrambi feriti agli arti, con oggetti contundenti. E il getto degli idranti continuava a colpire vecchi, donne e bambini bloccati al confine, già in preda al gelo.

Altri ne vediamo di casi simili. Di esuli rimandati nei grandi campi di contenimento, rispediti indietro dopo essere scappati all’orrore dell’Afghanistan.

Le mamme raccontano, ai media che riescono ad avvicinarsi, che i loro figli non hanno più una terra, un paese di cui sentirsi parte: solo una tenda, pochi metri quadri di umido spazio dove sostare con il terrore negli occhi, la paura di non farcela, di essere abbandonati.

Perché lasciamo fare, perché accettiamo senza protestare, perché giriamo la testa dall’altra parte, quando siamo cosi pronti ad alzare la voce per niente? Scorrono le immagini dei video anche per noi. E scopriamo che somigliano tutti ai nostri figli o nipoti. Le treccine legate con tanto amore sulla testa le conosciamo, hanno un sapore familiare. Come i lineamenti delicati, i cappottini imbottiti, i loro impossibili giochi fatti di niente, che pure li fanno sorridere e chiacchierare. E i loro disegni, che ci raccontano tutto.

Col moccio consumato di qualche matita buona rimasta nel sacco prezioso dei genitori sì può ancora disegnare il mondo a colori : una casa, un letto e un camino col fuoco acceso. Da una pentola sale un filo di vapore in cielo.

Forse, bambini miei, c’è ancora speranza.

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